Burnout e professioni

Una categoria lavorativa molto esposta a rischio di burnout è quella degli insegnanti.

Innanzitutto occorre ribadire che l’immagine sociale dell’insegnante è cambiata rispetto al passato: un tempo la scuola veniva tenuta in grande considerazione e, di conseguenza, l’insegnante era visto come una persona di prestigio mentre adesso sembra prevalere un atteggiamento meno idealistico e l’istituzione scolastica tende ad assumere una funzione quasi esclusivamente di custodia, di addestramento e di istruzione con una conseguente svalutazione del ruolo e della figura dell’insegnante stesso (Favaretto, Rappagliosi,1990).

A tale cambiamento non è stato corrisposto un mutamento nella loro formazione e ciò ha fatto si che si trovassero impreparati ad affrontarli e questo potrebbe essere un importante fattore di burnout.

La professione di insegnante può essere scelta per “vocazione” o per ragioni strumentali: c’è chi fa dell’insegnamento una ragione di vita e un modo per realizzarsi personalmente e chi lo fa per il prestigio o i vantaggi materiali che tale mestiere comporta. Ne derivano due modi completamente diversi di approcciarsi all’utenza e alla professione e di far fronte allo stress e alle difficoltà insite nel ruolo: chi ha fatto una scelta vocazionale ha una motivazione al successo ed una resistenza allo stress più alta di chi ha scelto l’insegnamento per ragioni strumentali, se consideriamo due insegnanti che lavorano a parità di condizioni, ci accorgiamo che chi è sorretto da una scelta vocazionale affronterà le difficoltà e le sfide con entusiasmo per sentirsi pienamente realizzato, mentre chi ha fatto una scelta strumentale si sentirà come schiacciato da un gran peso e riceverà in cambio solo uno scarso guadagno e qualche piccolo vantaggio personale.

Si è dibattuto sulla questione se la sindrome di burnout colpisce maggiormente gli insegnanti giovani o quelli meno giovani: con ogni probabilità, gli insegnanti più giovani sperimentano un livello di stress più alto perché si trovano ad affrontare situazioni e relazioni che ancora non conoscono bene e non sono ancora in grado di padroneggiare ma dispongono di più entusiasmo e, se validamente motivati, di risorse emotive; al contrario, chi lavora da molti anni padroneggia maggiormente la situazione lavorativa e i trabocchetti che vi sono nascosti, per cui non corre più i rischi di un eccessivo coinvolgimento; corre però il rischio di un distacco motivazionale legato alla routine e alla noia.

Altri autori hanno messo in relazione il burnout con determinati tratti di personalità. Ad esempio, alcune ricerche (McIntyre,1984; Brookings, Bolton, Brown,1985;Kyriacou,1987) hanno rilevato la correlazione tra individui con locus of control “esterno” e burnout. Tale connessione ha ricevuto conferma anche dalle ricerche di Pedrabissi e Santinello su un campione di 300 insegnanti di scuola elementare e media inferiore e da altri ricercatori (Pedrabissi, Santinello,1992, Halpin, Harris, Halpin,1985). Pedrabissi e Santinello, inoltre, hanno evidenziato come le dimensioni tipiche del burnout, influenzate dal locus of control, siano quelle dell’esaurimento emotivo e della depersonalizzazione e in tal modo hanno confermato l’ipotesi secondo la quale i docenti maggiormente esposti a rischio di burnout sarebbero quelli piuttosto rassegnati e remissivi nel momento in cui è necessario agire sulla situazione stressante (reazione tipica degli individuo con locus of control esterno) e che, di conseguenza, preferiscono (in maniera inconsapevole) distaccarsi dagli eventi “stressanti” (depersonalizzazione) esaurendo progressivamente le energie residue (esaurimento emotivo).

Le persone che scelgono l’insegnamento sulla base di un modello idealizzato e poco realistico di questa professione molto spesso vanno incontro a fenomeni di esaurimento emotivo: Ada Abraham ha sottolineato l’importanza del rapporto tra Sé ideale e Sé professionale realmente percepito, se queste due immagini corrispondono o almeno non sono troppo disarmoniche, la scelta della professione sarà fonte di benessere e soddisfazione; se il docente riscontra una forte discrepanza tra l’immagine idealizzata della professione e l’immagine reale di sé si verificherà una “crisi di identità” con quattro possibili sbocchi:

– predominanza di sentimenti contraddittori senza che si arrivi ad affrontare efficacemente il conflitto;

–  rifiuto di accettare il Sé reale: in questo caso gli insegnanti cercheranno una compensazione al di fuori della scuola o, in casi più gravi, possono manifestare comportamenti patologici come, ad esempio, l’alcolismo;

–  lasciarsi sommergere dall’angoscia quando ci si rende conto della mancanza dei mezzi necessari per rendere concreti gli ideali professionali. Emerge un iperattivismo ansioso che si manifesta nella ricerca affannosa di nuovi mezzi e strumenti (corsi di aggiornamento, congressi ecc..);

–  affrontare il conflitto in maniera serena e realistica e cercare una risposta nell’ambito delle possibilità concretamente disponibili, eventualmente decidendo anche di intraprendere una psicoterapia.

 

Questa analisi sulle conseguenze di una discrepanza tra Sé professionale e ideale richiama un altro fattore centrale del burnout: la motivazione alla scelta della professione.

Paradossalmente alcune ricerche (Pistoi,1985) dimostrano che sono più vulnerabili al burnout coloro che hanno scelto questa professione come ripiego: Pedrabissi e Santinello distinguendo i docenti tra motivati e non motivati hanno constatato che i primi vivevano con minore conflittualità il divario tra ciò che desideravano essere come insegnanti (immagine ideale) e ciò che realmente erano (immagine reale), mentre nei secondi tale frattura era molto più marcata (Pedrabissi, Santinello,1990). Gli insegnanti motivati, quindi, avendo scelto la professione con maggiore entusiasmo e desiderio sembravano manifestare minori sintomi di esaurimento emotivo e maggiore soddisfazione e realizzazione professionale.

La categoria degli infermieri è una delle più esposte al rischio di burnout. Già nel 1960, Menzies evidenziava i problemi e i legami esistenti tra stress e professione infermieristica, nel 1962 Jones evidenziava come gli infermieri sviluppassero un atteggiamento di distacco emotivo verso l’utente e come spesso il loro lavoro di supporto psicologico al paziente venisse meno. Da allora molte ricerche hanno tentato di identificare le dimensioni del lavoro esperite come stressanti (Ivancevich & Smith, 1981) e le relazioni tra le domande dell’ambiente di lavoro e la soddisfazione lavorativa, la performance e la tensione psicofisica (Vredenburg & Trinkaus,1983).

E’ accertato che questa attività sia particolarmente stressante ma va sottolineato che la categoria professionale non è omogenea, nel senso che il tipo di paziente curato, il tipo di ospedale e di reparto o struttura sanitaria posso influenzare i livelli di stress esperito.

Tradizionalmente gli studi sugli infermieri psichiatrici erano molto attenti ai problemi legati al ruolo esercitato ed al tipo di struttura e di ambiente fisico che accoglieva gli utenti, visto che le istituzioni psichiatriche non sono mai state dei modelli di modernità e comfort fisico, oltre che esercitare talvolta dei ruoli non esclusivamente terapeutici (Goffman, 1961). Ma il contatto con l’utente è difficile e si è rivelato una delle fonti di maggiore frustrazione per gli infermieri (Wallis cit. in Jones,1987) soprattutto quando si ha a che fare con pazienti cronici o “violenti”.

Gli studiosi di questa sindrome di sono occupati dall’inizio di questi operatori (Pines & Maslach, 1978) individuando delle specifiche strategie di risposta allo stress:

–  razionalizzazione: l’esperienza viene trasformata in termini intellettuali meno coinvolgenti;

– compartimentalizzazione: si tengono rigidamente separate la vita personale e quella lavorativa;

–  ritirata: il coinvolgimento lavorativo si riduce progressivamente dedicando meno tempo agli utenti, comunicando in modo stereotipato e impersonale e interagendo poco con lo staff.

 

Successive ricerche degli stessi autori hanno identificato come risultino maggiormente a rischio di burnout coloro che lavorano con alte percentuali di schizofrenici e che hanno una bassa qualità di rapporti con lo staff terapeutico. Inoltre incideva negativamente l’elevata frequenza di riunioni lavorative e veniva ribadita l’importanza per i membri dello staff di avere la sensazione di efficacia e successo.

Un’altra categoria fortemente esposto a rischio di burnout è quella degli educatori. Molto spesso il lavoro di educatore non è considerato una professione, ma piuttosto una vocazione, una missione, un dovere, un atto di solidarietà.

La scelta di un lavoro risponde sempre ad una motivazione psicologica e si fonda su aspettative che sono legate all’immagine sociale di una professione, alle possibilità lavorative presenti sul mercato, ai livelli di remunerazione, alle possibilità di carriera. Le professioni d’aiuto, almeno negli ultimi trenta anni, non sembrano corrispondere a tali requisiti: immagine sociale dequalificata se non negativa, progressivo rifiuto del mercato del lavoro, basse remunerazioni ma nonostante ciò le professioni di aiuto vedono un costante aumento degli aspiranti e spesso le cause sono da ricercare non nelle aspettative ma nelle motivazioni psicologiche cioè nei bisogni profondi di chi desidera diventare educatore.

La prima motivazione riguarda il fatto che chi sceglie questa professione ha un forte bisogno di aiutare. Aver bisogno di aiutare significa anzitutto mettersi al di qua della soglia del bisogno di essere aiutati: assistere un soggetto in stato di bisogno offusca la consapevolezza del proprio bisogno. La seconda motivazione è legata alla prima: porsi in un ruolo di bonificatore, benefattore, salvatore, non solo esorcizza la paura del male esterno, ma garantisce una buona immagine di sé; chi dedica la vita agli altri, non può che essere buono, chi lavora per l’aiuto, chi lotta contro il male in teoria non potrebbe mai commetterne. La terza motivazione riguarda il potere: chi ha bisogno di aiuto è sempre in stato di inferiorità e il professionista dell’aiuto si pone come grande madre accogliente e grande padre onnipotente, che può fare da contenitore di ogni male del paziente.

L’incontro con il bisogno, il disagio, il dolore e la morte attacca l’immagine del potente salvatore e produce depressione e sentimenti di impotenza, l’impossibilità ad aiutare facilita l’insorgenza del dubbio, l’idealizzazione della propria immagine si affievolisce e arriva la frustrazione prima e il burnout poi.

Un altro problema relativo al lavoro di educatore è quello che riguarda retribuzioni e carriera.

Il lavoro sociale non è gratificante per il primo aspetto, né per il secondo. Può sembrare paradossale, ma retribuzione e carriera, prestigio e potere sono inversamente proporzionali alla vicinanza coi soggetti bisognosi d’aiuto: l’educatore di un servizio territoriale che vede ogni giorno l’utente, guadagna meno dell’assistente sociale che lo vede una volta al mese, la quale guadagna meno del capo-servizio che lo vede una volta l’anno, l’unica possibilità di carriera, nel settore dell’aiuto, consiste nell’allontanarsi dall’aiuto stesso. La continuativa vicinanza all’utente va inoltre di pari passo con la diminuzione delle opportunità di ricerca e formazione permanente. Una seria prevenzione del burnout dovrebbe compensare con maggiori retribuzioni gli operatori front-line, offrendo loro maggiore potere e maggiore libertà.

Non essendo questo possibile per motivi economici, occorre allora trovare sistemi compensatori come la formazione e la supervisione permanenti, l’istituzione dell’anno sabbatico, il coinvolgimento attivo in attività di ricerca e di confronto professionale e scientifico, la possibilità di carriere orizzontali (spostamenti premio, sia pure temporanei, in servizi più gratificanti), l’uso di strumenti di incentivazione legati alla qualità delle prestazioni.

Un altro elemento specifico che facilita ulteriormente il burnout è la difficoltà di verificare e valutare i risultati: in una impresa profit, sia materiale che immateriale, il risultato è il profitto, in un sistema d’aiuto il risultato è il benessere; mentre il primo è facilmente quantificabile, il secondo non lo è affatto. Chi lavora in una impresa profit dispone di parametri di conferma o disconferma della propria prestazione, abbastanza chiari e di facile applicazione mentre chi lavora in un sistema d’aiuto, lavora al buio, in un regime di risultati invisibili e di responsabilità distribuite. La carenza di confronto individuale con i risultati delle proprie azioni produce da una parte uno stato d’incertezza continua.

L’équipe fornisce all’operatore uno spazio di appartenenza e confronto, di supporto emotivo e di controllo: è un contenitore delle dimensioni affettivo-relazionali che sono implicate nel lavoro dell’aiuto.

Naturalmente le funzioni indicate per l’équipe dell’aiuto, sostegno, confronto, funzione di contenitore, supervisione, hanno una valenza positiva per l’efficienza e possono prevenire il burnout, a condizione che l’équipe funzioni.

Quando il gruppo di lavoro è attraversato da processi disfunzionali o da dinamiche patologiche, invece della prevenzione, esso offre una accelerazione della emergenza del burnout. Rovesciando il concetto, possiamo dire che l’équipe svolge un forte ruolo preventivo del burnout a patto che riesca a costruire un consenso, funzionare come operatore plurale e agire come contenitore emotivo-razionale.

I sistemi di aiuto producono benessere solo se sanno prevenire il malessere o il burnout degli operatori. Uno dei problemi del burnout è che spesso gli operatori stessi non riconoscono di essere in una situazione di svuotamento e bruciatura e in questi casi è fondamentale il sostegno dell’equipe e il confronto e feedback con la stessa; inoltre è di fondamentale importanza l’intervento e la vicinanza, tramite la comunicazione, della famiglia. È importante, anche se il lavoro della professione d’aiuto assorbe notevolmente e fa sentire “buoni”, riuscire a ritagliarsi dei momenti privati, dove il lavoro non possa entrare. Di fondamentale importanza è dare spazio a svago e rilassamento anche se la tendenza sarebbe di occuparsi sempre degli altri e dei loro problemi, è davvero importante prendersi cura di sé anche con delle pause, laddove possibile, di rigenerazione e ricarica, in attesa di stare di nuovo bene e solo cosi è si raggiunge l’obiettivo finale di occuparsi delle persone che richiedono aiuto, con qualità, compassione e amore.