Nomofobia: la paura di rimanere senza cellulare

Controlli più volte al giorno se il cellulare è acceso e se non hai perso chiamate o SMS? Ti porti il cellulare dappertutto, anche in bagno? L’idea di scaricare la batteria o di dimenticarti il telefono ti fa paura?… Allora soffri di sicuro di nomofobia.
Definizione della nomofobia
Il termine nomofobia (dall’inglese No mobile phone phobia) è comparso in Gran Bretagna nel 2008, in occasione della pubblicazione dei risultati di un sondaggio sul rapporto degli utenti con il proprio cellulare, realizzato dalla Posta britannica su un campione di oltre 2.000 persone. Nell’ambito dell’indagine, il 53% dei britannici intervistati dichiarava di essere ansioso quando non aveva con sé il proprio telefono. Qualche anno dopo, un altro studio condotto al di là della Manica ha rivelato che il 22% dei francesi non potrebbe vivere più di un giorno senza il cellulare. Anche se la nomofobia può tradursi in uno stato di ansia, stress o nervosismo, quando ci si trova senza telefonino o quando si è irraggiungibili, secondo Catherine Lejealle, sociologa specializzata negli usi delle nuove tecnologie, “il termine dipendenza o fobia non viene correttamente utilizzato. Non si può considerare la nomofobia come una patologia, perché non comporta una sofferenza fisica causata dalla mancanza dell’oggetto. In questo caso, è più corretto parlare di angoscia”. Un’angoscia che la maggioranza dei nomofobi giustifica con la paura di perdere i contatti con parenti e amici… Ma non dimentichiamo che, con l’avvento degli smartphone, il telefono è diventato molto di più che un pratico strumento per chiamare.
La dipendenza dal cellulare
“In passato, le persone avevano paura di perdere le chiavi o il portafoglio. Oggi, si nota uno slittamento di questi timori verso il telefono, che cristallizza tutta la nostra memoria”, spiega la sociologa. Perché è vero che le nuove generazioni di telefoni contengono le nostre agende, le nostre rubriche, le nostre foto, i nostri brani musicali preferiti, i nostri SMS classificati e organizzati per conversazione… “Diverse funzioni affettive si sono trasferite sul telefono”, continua la specialista, e poco a poco questo dispositivo è diventato un vero e proprio milleusi che non ci abbandona mai. “È come un nuovo coltellino svizzero”, immagina Phil Marso, promotore dal 2001 delle Giornate Mondiali senza Telefonino. “Teniamo tutta la nostra vita nel telefono e, quando lo perdiamo, perdiamo anche una parte della nostra vita. Ecco la ragione dell’angoscia che proviamo”. Senza dimenticare che le tante applicazioni di cui dispone il cellulare lo rendono un oggetto estremamente pratico: ci consente di salvare i nostri indirizzi preferiti, funge da strumento di geolocalizzazione che ci aiuta a trovare rapidamente un ristorante, gli orari del cinema, un parcheggio… Il cellulare, quindi, non si limita più a metterci in contatto con una persona, ma ci facilita nello svolgimento di alcune attività quotidiane. A parere dei due specialisti, l’onnipresenza del cellulare nella nostra vita presenta comunque dei limiti: “Con il telefono, tutto diventa urgente”, spiega Catherine Lejealle, e Phil Marso precisa che il cellulare: “aggiunge un’ulteriore pressione sociale, in particolare nell’ambito professionale, fino a trasformarsi in uno strumento di intrusione nella sfera privata. Si diventa raggiungibili in qualsiasi momento e, di conseguenza, bisogna essere reattivi”.
La nomofobia in futuro
“Il telefono dispone di così tante funzioni che il timore di perderlo, di farselo rubare o di dimenticarlo è del tutto normale”, rassicura Catherine Lejealle. Se la nomofobia sembra essere una conseguenza logica, considerando il posto che il telefono ha assunto nelle nostre vite, non va comunque sottovalutata. “Il rischio è di vivere in un mondo virtuale. Il legame sociale non è in pericolo perché esistono sempre più social network; il rischio è invece quello di perdere il contatto fisico”, avverte Phil Marso, che aggiunge: “I produttori fanno di tutto per rendere questo oggetto indispensabile, siamo condizionati a utilizzarlo in continuazione.”
Per non cadere nell’eccesso e nella dipendenza, è necessario fissare sin da ora alcuni limiti all’uso del cellulare. “Attualmente”, spiega l’ingegnere delle telecomunicazioni, “siamo in piena fase di riflessione sulle corrette regole d’uso dei dispositivi mobili. Non dobbiamo diventare schiavi del telefono, ma essere in grado di ritagliarci alcuni momenti senza il cellulare”. E non sarà certo Phil Marso, che promuove le giornate senza telefonino, a contraddire la specialista. “Bisogna insegnare alle giovani generazioni a controllarne l’uso”, spiega la sociologa. “Devono imparare che non rischiano la vita se non sono connessi al loro cellulare”.
E tu, che rapporti hai con il tuo?

Fonte: Doctissimo

Depressione, con la crisi aumentano i casi. Ma perché non dovrebbe essere così?

ll 10 luglio l’Istat ha pubblicato un’indagine su: “Tutela della salute e accesso alle cure”, in cui riporta che la salute mentale in Italia è peggiorata rispetto al 2005: “La depressione è il problema di salute mentale più diffuso e il più sensibile all’impatto della crisi, riguarda circa 2,6 milioni di individui (4,3 per cento),  con prevalenza doppia delle donne rispetto agli uomini”. Ho cercato di capire, fra i criteri di ricerca pubblicati, come si sia arrivati a queste conclusioni, ma non essendo un epidemiologo non sono in grado di fare una valutazione tecnica, mi limiterò pertanto a pochi commenti non molto lontani da quelli che potrebbe fare qualsiasi cittadino.

Il primo è quasi ovvio: “Ma perché non dovrebbe essere così?”. Da che mondo e mondo la depressione è associata a quello che non va nella vita, ai lutti, alle perdite, ai tracolli amorosi e finanziari, ai licenziamenti e ad altre possibilità simili. Avrebbe fatto più scalpore ritrovare all’interno di un periodo di recessione che ha “fregato” una intera generazione di giovani che vanno ormai per i trenta / quaranta anni, destinati ad una vita precaria e ad un futuro incerto, dei dati che avessero associato tutto questo ad una maggiore felicità. Ci sono stati tempi in cui si immaginava che nei periodi duri diminuissero le malattie mentali, perché essendo queste ultime considerate una sorta di “invenzione personale”, i tempi bui avrebbero obbligato le persone a rimboccarsi le maniche e a non pensare a tante “sciocchezze”.

Nella stessa indagine Istat viene riportato che i tumori maligni sono accresciuti del 60 per cento e che gli oncologi considerano questo un dato positivo perché vuol dire che si vive più a lungo, quindi l’aumento della depressione, a vedere il bicchiere mezzo pieno, potrebbe voler dire, che la gente si vergogna meno a mostrare i propri stati d’animo e questo spiegherebbe la prevalenza della depressione nelle donne, a sostegno di una cultura anti “macista” secondo cui mostrare la sofferenza è un segno di forza e non di debolezza. Ma su un altro punto potrebbe scricchiolare un’indagine del genere, proprio nel significato della parola “depressione” che ha infinite sfaccettature e che deve essere distinta dal termine “tristezza”.

Ad un’osservazione esterna una persona depressa ed una persona triste possono apparire molto simili se non identiche, ma la tristezza è uno stato d’animo legato alle naturali vicende della vita e la capacità di farci fronte può comportare alla lunga dei vantaggi nella dinamica complessiva della propria personalità, mentre con la depressione si entra nel campo psicopatologico, del disturbo o della malattia. E’ importante quindi distinguere fra due cose apparentemente simili, una fisiologica e l’altra patologica, e  avere la capacità di dare il nome giusto ad ognuna delle due, perché il trattamento è molto diverso. Si rischia in molti casi di trasformare la persona triste, che deve essere sostenuta con interventi sociali e personali, in una diagnosi clinica, la depressione, e trattarla in termini esclusivamente medici. Speriamo dunque che a una crisi già di per sé tanto perniciosa non si aggiunga la confusione fra tristezza e depressione, con una errata medicalizzazione, che sarebbe ulteriormente esiziale.

Fonte: Il fatto quotidiano

Congresso Attaccamento e Trauma

Roma 19-20-21 settembre 2014 con il patrocinio Associazione EMDR Italia
I massimi Esperti mondiali si ritrovano per esporre gli ultimi sviluppi nell’ambito della conoscenza del trauma e dell’Attaccamento e della loro relazione. Un Congresso unico in una delle Capitali più belle del Mondo, costituisce un’occasione speciale per acquisire una conoscenza profonda da chi ha dedicato la propria vita all’esplorazione del funzionamento dell’essere umano.
Tutti gli interventi acquistano quindi una fondamentale importanza per chi si occupa di Traumi Psicologici e della cura di Persone che hanno alla base della sofferenza psicologica esperienze di Traumi anche complessi.
Interventi:

  • Daniel Siegel, Stati Uniti. Impatto del trauma sull’integrazione neurale; Intervento psicoterapeutico per promuovere l integrazione neurale e interpersonale dinanzi a un trauma
  • Pat Ogedn, Stati Uniti. Azioni di riconoscimento: mindfulness relazionale integrata, movimento, e riparazione diadica di trauma e fallimento dell’attaccamento
  • Kathy Steele, Stati Uniti. Modelli relazionali alternativi per la psicoterapia “informata” sul trauma. Oltre il paradigma dell’attaccamento genitori-figli
  • Stephen Porges, Stati Uniti. La teoria polivagale: demistificare le risposte corporee al trauma
  • Allan Schore, Stati Uniti. Un cambio di paradigma nell’approccio terapeutico alla messa in atto
  • Isabel Fernanedz, Italia. Trauma e attaccamento: il contributo della terapia EMDR
  • Giovanni Liotti, Italia. Interazioni fra attaccamento disorganizzato precoce e trauma psicologico successivo nella genesi delle patologie dissociative
  • Vittorio Gallese, Italia. Neuroni specchio, simulazione incarnata e approccio relazionale in seconda persona alla cognizione sociale. Un nuovo punto di vista sull’intersoggettività

Lingua: inglese (traduzione simultanea in italiano)
Sede: Holiday Inn, Rome Eur Parco dei Medici, Viale Castello della Magliana 65, Roma
Quota di iscrizione:
250,00 euro (IVA inclusa) per gli specializzandi
300,00 euro (IVA inclusa) soci EMDR
420,00 euro (IVA inclusa) pagabili in due rate
Sconti: 100 euro per chi paga in un’unica soluzione entro il 31 Marzo
Sconti non cumulabili
Consulta la brochure:
http://www.istitutodiscienzecognitive.com/1/upload/brochure_congresso_trauma.pdf
Iscrizione:
richiedere il modulo di iscrizione a: isc@istitutodiscienzecognitive.it
Info:
isc@istitutodiscienzecognitive.it
tel. 079/230449 (lun-ven 9.00-13.00 e mart 14.00-18.00)
fax. 079/9578217

Fonte: Ccds.it

Childhood Links: il metodo innovativo per mantenere il collegamento tra famiglie e bambini in affido in Europa

Il problema di mantenere legami familiari di bambini collocati in istituti a causa della deprivazione sociale ed educativa è sempre più presente nelle istituzioni ospitanti. Il consorzio CHILDHOOD LINKS è composto da 8 partner provenienti da Spagna, Italia, Repubblica Ceca e Francia. Tutti i partner sono in stretto rapporto con gli istituti in cui vivono i bambini. I partner adatteranno, verificheranno e valuteranno questo metodo di collegamento che comprende un software TRIADE. Questo strumento online sarà arricchito, tradotto e verrà creata una guida tecnica. Saranno realizzati test insieme agli operatori sociali, animatori, psicologi, formatori, dirigenti istituzionali che lavorano in queste strutture.

Scopri di più sul progetto alla pagina: http://lms01.univpm.it/

Fonte: Childhood Links

Childhood Links

Mamma-rexia: mamme anoressiche

Oggi, sempre più donne lottano per riuscire a perdere peso dopo la gravidanza, ma a volte anche prima di avere il bambino. Tutto è iniziato quando si credeva che questa particolare “condizione”, ci desse il permesso per mangiare per due. Poi tutto ha iniziato a cambiare e molte donne, specialmente dello spettacolo, solo un paio di settimane dopo la gravidanza, hanno subito iniziato a fare sport in maniera intensiva, per riuscire a perdere peso nel più breve tempo possibile e riuscire a calzare nuovamente i jeans taglia 40. Ora invece la situazione sembra stia peggiorando sensibilmente, perché pare che molte neo mamme, non siano più disposte ad attendere la nascita del bambino, per allenarsi in palestra e mangiare come uccellini. Questo è un problema sempre più in aumento, specialmente nelle giovani mamme, che si dimenticano che l’aumento di peso è una parte necessaria per far crescere il feto che c’è dentro di loro. E’ sempre più in aumento la domanda di programmi di allenamento per donne incinte, per cercare di mantenere la linea anche durante la gravidanza. Tutto questo sembra abbastanza assurdo, perché una delle cose migliori della gravidanza, è appunto quella di avere il nulla osta per scegliere anche due dessert al ristorante! Perché non possiamo semplicemente goderci questo momento ed approfittare dell’unica volta nella vita in cui è giustificato un aumento di peso? Perché queste donne hanno evidentemente un problema. I disturbi alimentari sono una deviazione del comportamento alimentare, ma anche il troppo esercizio fisico lo è. Non c’é cosa peggiore che vedere che il proprio bambino non si è sviluppato a correttamente, con problemi respiratori o infezioni, perché la madre non riusciva a decidersi a mangiare a sufficienza durante la gravidanza.

Fonte: Vivere Donna

“Leggere” nella mente come in un libro

Pur avendo un substrato genetico, la capacità di comprendere comportamenti, intenzioni e desideri degli altri è una vera e propria abilità che ha bisogno di essere appresa attraverso un processo mediato dalla cultura. Recenti ricerche hanno scoperto una straordinaria somiglianza fra questo tipo di “lettura” della mente e la lettura di un testo scritto: entrambe si sono sviluppate grazie all’adattamento di strutture cerebrali che si erano evolute per altri scopi. La nostra abilità nel predire e spiegare i comportamenti, le intenzioni, i desideri degli altri ha un nucleo geneticamente determinato, ma si sviluppa appieno solo attraverso un lento processo di istruzione, mediato e trasmesso dalla cultura, che somiglia in modo impressionante all’acquisizione della capacità di leggere. Una buona “lettura” della mente altrui va quindi appresa e in questo processo è centrale il ruolo di quanti sono preposti a insegnarla, ossia del contesto culturale.
A sostenerlo sono Cecilia M. Heyes dell’Università di Oxford e Chris D. Frith dell’University College di Londra, che in un articolo pubblicato su “Science” passano in rassegna gli studi sullo sviluppo nell’uomo di una “teoria della mente” o – come preferiscono dire Hayes e Frith – di una “lettura della mente” altrui, un tema su cui si sono concentrati tanti sforzi della ricerca scientifica degli ultimi 35 anni.
Diversi studi hanno indicato che anche i bambini piccoli hanno una capacità di lettura della mente. Nei test non verbali sui bambini di pochi mesi, i movimenti degli occhi sono considerati una prova che, osservando le azioni di una persona, i bambini si aspettano, per esempio, che questa raggiunga una posizione in cui crede che sia nascosto un oggetto desiderabile. Questi dati farebbero pensare che la capacità di leggere la mente degli altri sia qualcosa di innato, geneticamente fissato.
Tuttavia, osservano gli autori, esistono fortissime analogie fra la lettura di uno scritto e questa sorta di “lettura” della mente altrui. Per esempio, entrambe prevedono la derivazione del significato da segni: nel primo caso, segni sulla carta il cui significato si riferisce a oggetti ed eventi del mondo; nel secondo caso, i segni sono espressioni facciali, movimenti del corpo e posture, e il loro significato si riferisce agli stati mentali di chi agisce. Inoltre, entrambe le capacità dipendono da meccanismi cerebrali dedicati, e sono soggette a specifici disturbi dello sviluppo (dislessia/autismo).
Secondo Heyes e Frith, è necessario distinguere fra una capacità di lettura “implicita” della mente, che permette in modo automatico l’attribuzione di intenzioni a un agente osservato, e una lettura “esplicita”, quella che ci permette di deliberare sugli stati mentali e di esprimere a parole i nostri pensieri su di essi.
Queste due modalità di lettura non sarebbero controllate dagli stessi meccanismi cerebrali: nella seconda entrerebbero in gioco aree specializzate che si sviluppano e plasmano secondo un modello estremamente simile a quello dell’acquisizione dell’abilità della lettura. Proprio come la lettura di uno scritto, la modalità esplicita sfrutterebbe, adattandole, capacità originariamente evolutesi per altri scopi.
A sostegno di questa interpretazione si possono portare alcuni dati. In primo luogo, persone affette da autismo possono riuscire a padroneggiare la capacità di lettura esplicita della mente, pur continuando a essere incapaci di lettura implicita, un fenomeno difficilmente spiegabile se vi fosse una perfetta continuità fra i meccanismi che presiedono ai due processi.
Un’ulteriore prova di questo dissociazione viene da test che mostrano come nell’eseguire compiti in cui sono richiesti giudizi verbali su pensieri e sentimenti (lettura esplicita) di altre persone, la precisione e la velocità della valutazione è compromessa dalla concomitante attivazione di una serie di funzioni esecutive (memoria di lavoro, controllo cognitivo e dell’attenzione, inibizione), funzioni che non sono invece mobilitate in compiti in cui è richiesta solo una lettura implicita della mente.
L’esistenza di questa componente “regolativa” o normativa nella lettura della mente – che rappresenta un’ulteriore punto di contatto con la lettura di un testo: la capacità di lettura prevede una componente prescrittiva che si esplicita nella scrittura – è confermata anche da recenti ricerche in psicologia sociale e neuroscienze cognitive. Queste hanno mostrato, per esempio, che quando gli adulti sono scoraggiati dal credere nel libero arbitrio, dicendo che a controllare il comportamento sono processi neurologici deterministici invece che stati mentali, vi è un indebolimento dei segnali neurali associati alla pianificazione delle azioni e un comportamento tendenzialmente più aggressivo.
La ricerca sulla lettura della mente, concludono gli autori, finora ne ha sottolineato il ruolo interpretativo (spiegare e prevedere il comportamento) a scapito di quello normativo. Tuttavia, “l’alfabetizzazione mentale” ha anche un ruolo regolativo di primaria importanza. “Il lettore della mente ‘novizio’ – scrivono – non impara solo che un comportamento può essere prodotto da interazioni razionali tra credenze e desideri, ma anche quali dovrebbero essere, ed è incoraggiato a fare proprio un comportamento che obbedisca a queste convenzioni.”

Fonte: Le scienze

5° Convegno Nazionale: Psicopatologia e lavoro. Lo stress, il rischio e la malattia.

EVENTO GRATUITO Abbandonando una prospettiva dicotomica che impone una netta distinzione tra benessere e malattia, in questa edizione del Convegno, SIPISS e tutti i relatori convenuti si propongono di mettere in luce come gli ambienti di lavoro siano caratterizzati da un continuum lungo il quale i lavoratori si distribuiscono dando luogo a un ventaglio di condizioni di salute e malessere che possono assumere vari livelli di severità. Infatti, così come nella popolazione generale, non è pensabile supporre che le persone stiano semplicemente bene o male. La realtà è molto più complessa e sfaccettata di una mera divisione categoriale. Immaginando i luoghi di lavoro possiamo sì immaginare che vi siano persone che godono di una buona salute psichica e altre che invece lamentano un disagio profondo. Ma nel mezzo, ed è la stragrande maggioranza, vi stanno individui che soffrono di stress lavoro correlato così come lavoratori che, per la natura stessa della propria attività, sono esposti a rischi importanti per lo sviluppo di malattie psichiche. Obiettivo del Convegno è fare il punto della situazione sull’attualità dello stato di salute delle popolazioni che compongono i nostri ambienti di lavoro. Si partirà dal pieno benessere del lavoratore, interrogandosi se tale condizione sia realmente osservabile o sia pura utopia, in funzione del fatto che un lavoratore è portatore di vissuti ed esperienze extra (personali, familiari) che possono impattare sulla propria salute psichica e che necessariamente faranno il proprio ingresso sul posto di lavoro. Prendendo poi le mosse dagli studi e dalle applicazioni delle più recenti metodologie per la valutazione dello stress lavoro correlato negli ambienti di lavoro, l’obiettivo sarà quello di riconoscere come, dopo ormai diversi anni di applicazione del D.lgs. 81/08, sia cambiata la percezione e l’esperienza dello stress tra i lavoratori. Di cruciale importanza sarà inoltre riconoscere quali sono i fattori di rischio per lo sviluppo di una patologia psichica nei contesti di lavoro, pensiamo ad esempio alle helping profession, ai militari, ai soccorritori, a coloro che più di altri sono esposti al rischio burn-out. Infine, il focus si concentrerà sulla malattia psichica conclamata o diagnosticata nell’ambiente di lavoro. La riflessione verterà sulla gestione di tali lavoratori, a volte racchiusi per praticità sotto la dicitura di categoria protetta, indagando se e come vi siano margini di buon funzionamento lavorativo anche tra coloro che sono portatori di una diagnosi psichiatrica. Il Convegno, dunque, si propone per i partecipanti come un’importante occasione per leggere e ri-leggere i nostri ambienti di lavoro e lo stato di salute di coloro che li vivono, in questo guidati da personalità affermate nel campo della medicina e della psicologia che condivideranno, oltre che dati statistici e competenze tecniche, anche le proprie esperienze sul campo.

Argomenti del congresso:il benessere dei lavoratori, i cambiamenti nella percezione e nell’esperienza dello stress tra i lavoratori, i fattori di rischio per lo sviluppo di psicopatologie nell’ambiente di lavoro e, infine, la malattia psichica conclamata o diagnosticata.

Data:06/11/2014
Comune:Milano
Azienda/Ente formativo:SIPISS
Luogo di svolgimento:Camera del Lavoro di Milano
Indirizzo:C.so Porta Vittoria 43, 20122 Milano
Crediti assegnati:3
Durata del corso (in ore):4
Quota di partecipazione:0 €

Fonte: Info congressi

Facebook e social media, quando la rete imbriglia la mente

Facebook e gli altri social media, i moderni mezzi di comunicazione che permettono di tenersi sempre più in contatto con il resto del mondo, possono rappresentare una vera e propria arma a doppio taglio per la salute psicologica dei loro utenti. Se infatti, da un lato, gli aggiornamenti di stato “positivi” possono contribuire a disseminare la felicità in rete, non mancano i casi in cui Facebook può addirittura alimentare l’ansia e aumentare il senso di inadeguatezza insito in chi lo utilizza. A dimostrarlo sono rigorosi studi scientifici condotti sul tema negli ultimi anni. Ethan Kross, psicologo sociale dell’Università del Michigan e autore di un recente studio a tal proposito pubblicato sulla rivista PLoS One, non ha dubbi. “In superficie Facebook rappresenta un’inestimabile risorsa per soddisfare il bisogno umano primario di essere socialmente connesso – spiega l’esperto – Ma piuttosto che aumentare il benessere, abbiamo scoperto che l’uso di Facebook predice il risultato opposto: lo minaccia”. Tuttavia, secondo Shannon M. Rauch, esperta della Benedictine University di Mesa, Stati Uniti, “i social media sono una fonte di forza ogni volta che ci si connette. Per chi posta aggiornamenti di stato, il rafforzamento arriva sotto forma di commenti positivi e ‘like’ – spiega l’esperta – E sappiamo per certo che i comportamenti che sono costantemente rafforzati verranno ripetuti”. Proprio per questo, spiega Rauch, il rapporto con Facebook può assumere letteralmente le sembianze di una dipendenza. Un gruppo di ricercatori norvegesi ha addirittura messo a punto una scala psicologica (la Facebook Addiction Scale, BFAS) per misurare questa dipendenza. Ma c’è di più. Dar Meshi e colleghi della Freie Universität, in Germania, hanno scoperto che ricevere commenti positivi su Facebook attiva un’area del cervello, il nucleus accumbens, coinvolta proprio nei fenomeni di ricompensa e che tanto più si usa il celeberrimo social network tanto maggiore è la sua attivazione. Purtroppo, però, in molti casi questo fenomeno può avere effetti negativi sul benessere psicologico. La metà delle persone il cui comportamento è influenzato dalla loro vita su Internet ammette infatti che i cambiamenti sperimentati sono negativi. Il confronto con la vita degli altri (che peraltro spesso non corrisponde alla realtà dei fatti) può far nascere emozioni negative. Per di più molti utenti dei social media soffrono di disturbi del sonno e si sentono preoccupati e a disagio quando non riescono a navigare quanto vorrebbero. Per chi soffre già di seri disturbi dovuti all’ansia l’uso di Facebook potrebbe addirittura aggravare i problemi riscontrati nell’affrontare le persone nella vita reale. Senza dimenticare, poi, il cyberbullismo, un problema sempre più alla ribalta delle cronache che secondo esperti come Rauch è una vera e propria realtà. I punti a sfavore di un uso eccessivo di questi nuovi strumenti di comunicazione e connessione sociale sembrerebbero quindi superare di gran lunga quelli a favore. Tuttavia, gli esatti effetti dei social media sul benessere psicologico devono ancora essere ben chiariti. Una cosa sembra certa: anche in questo caso,esagerare è rischioso.

Fonte: Il sole 24 ore

Lo Psicologo di base: una rivoluzione possibile

Il Veneto sarà la prima regione italiana a sperimentare ufficialmente la figura dello Psicologo di base. Come riportato dagli organi di stampa infatti, in due Unità Territoriali di Assistenza Primaria (Utap) del territorio veneto, il medico di medicina generale verrà affiancato da questa nuova figura che lo coadiuverà nel trattare i pazienti con problematiche di tipo psicologico.
L’introduzione di questa figura si deve al lavoro pioneristico realizzato dal Professor Luigi Solano, il quale già negli anni passati aveva varato alcuni studi pilota realizzati negli ambulatori di Umbria e Lazio, che avevano portato (dopo solo un anno di ‘compresenza’ medico e psicologo) ad un risparmio (per le due Asl che hanno voluto fornire i dati) della spesa sanitaria del 14 (55mila) e 17% (75mila euro). Questo la dice lunga su quanto la figura dello psicologo possa, attraverso l’ascolto e l’intercettazione tempestiva del disagio psicologico, consentire di evitare (al paziente e al SSN) il ricorso a molti esami strumentali oppure all’utilizzo di farmaci che spesso costituiscono solo una soluzione temporanea del problema. Non è un caso che negli ultimi dieci anni il consumo di antidepressivi sia cresciuto del 400%. Come afferma il collega Montanari, ‘anni di negazione della nostra interiorità hanno portato ad una generazione più incline alla pillola che all’introspezione’.
Spesso sfugge (o viene semplicemente taciuto) il fatto che alcune persone tendano ad utilizzare il corpo come megafono per la propria sofferenza. L’incapacità di riconoscere, dar voce ed esprimere le emozioni in alcuni soggetti, trova come unico canale di sfogo quello corporeo. In molte occasioni disagio corporeo e psichico, vengono tenuti debitamente separati, come se appartenessero a due ambiti diversi, mentre tutte le ricerche degli ultimi anni ci confermano come mente e corpo dialogano e si influenzano incessantemente! Nello specifico, il disagio psicologico viene ritenuto una problematica che riguarda solo poche persone ma gli studi ci dicono che almeno per 4 italiani su 10 non è così. Inoltre, sappiamo come dichiararsi sofferenti o bisognosi d’aiuto possa diventare addirittura fonte di stigma sociale per chi si trova in difficoltà.
Utilizzando come riferimento per l’intervento il modello bio-psico-sociale, non possiamo quindi che abbracciare sempre di più una visione dell’essere umano come prodotto influenzato da tre sfere (biologica, psicologica e sociale appunto) le quali si influenzano e si modellano tra loro. L’aiuto dello psicologo e quindi della capacità della lettura della realtà di cui è portatore, può essere di grandissimo aiuto per il medico. L’integrazione tra le discipline e l’incontro tra ‘to cure’ e ‘to care’, tra il curare e il prendersi cura, divengono un fondamentale veicolo di maggiore benessere per il paziente.

Fonte: Medicitalia