Leadership e comunicazione carismatica

Secondo alcuni autori, le persone possono avere principalmente tre stili relazionali:

1. lo stile dominante

2. lo stile sottomesso o gregario

3. lo stile assertivo

L’assertività (o stile assertivo) è uno stile di relazione che ci permette di affermare le nostre idea senza essere né aggessivo, né sottomesso!

Il modo migliore per comunicare non è parlare, ma ascoltare e adattarsi allo stile comunicativo dell’altro.

Un modo per capire le intenzioni dell’altro è conoscere il suo stile comunicativo.

Vi consiglio di memorizzare questi schemi in modo tale da poter avere sempre presente questo schema e capire se l’altro è dominante e sottomesso, in modo tale da adeguarsi alla sua comunicazioni e relazionarsi in maniera più efficace.

Stile comunicativo dominante

Comunicazione non verbale

1. Lo stile dominante tende ad utilizzare una gestualità che si esprime secondo la verticalità

2. Lo stile dominante ha i palmi rivolti verso il basso o nascosti

3. Utilizza un tono alto di voce

4. Non usa segregati verbali (ad esempio “ehm..”, “cioè”, “mmm…”)

5. Utilizza una gestualità sicura, fluida, generalmente indicatoria (indica oggetti o persone)

Comunicazione verbale

1. Accusa o critica l’altro

2. Ritiene il suo punto di vista corretto, è molto legato alle sue idee e non accetta che l’altro abbia un proprio punto di vista

3. Interrompe l’altro, non gli permette di parlare, insiste a ribadire il suo punto di vista

4. Giudica senza diritto di replica “le persone che fanno X sono necessariamente Y”

Stile sottomesso

Comunicazione non verbale

1. Tende ad utilizzare una gestualità che si orienta verso l’orizzontalità

2. Ha i palmi rivolti verso l’alto o che vengono mostrati

3. Utilizza un tono di voce basso, inferiore a quello del suo interlocutore

4. Usa diversi segregati verbali (ad esempio “ehm…”, “cioè”, “mmm”)

5. Utilizza una gestualità frammentata, insicura, rigida

Comunicazione verbale

Parla spesso per luoghi comuni, per cose che “si devono fare”, “che è normale fare”, che “è giusto fare”: usano spesso frasi impersonali. Usare frasi impersonali, talvolta può essere utile, ma tendenzialmente significa non assumersi la responsabilità delle frasi che si pronunciano, proprio perché non hanno soggetto. Alcuni esempi sono “è giusto fare X”, “si deve fare Y” e non “io ritengo che sia giusto fare così” o “secondo me bisognerebbe fare così”.

1. Dice raramente il suo punto di vista o solamente se viene interpellato

2. Teme la risposta dell’altro

3. Preferisce “non fare” per non attribuirsi la responsabilità di quello che svolge.

4. Utilizza frasi stereotipate

5. Viene interrotto dall’altro.

Percorso verso l’assertività

Lo stile dominante e lo stile sottomesso non sono di per sé negativi. Possono essere utilizzati e hanno un potenziale persuasivo, ma non conviene utilizzarli sempre. Un leader che è sempre dominante tenderà ad essere visto come troppo rigido e alla lunga verrà sabotato. Un leader sottomesso invece non riuscirà sempre a far valere le sue idee.

Una delle modalità per ridurre il proprio livello di sottomissione è quello di utilizzare l’io-messaggio (Nanetti, 2007)

L’io-messaggio è una delle principali modalità di comunicazione assertiva, consiste nel dichiarare il proprio punto di vista secondo questa forma

Anziché utilizzare la forma “è giusto fare X”, “è bene fare X”, “bisogna fare X”

utilizzate la formula

Io penso/ritengo/credo che X

Anziché dire “è giusto criticare gli altri quando sbagliano” è più responsabilizzante dire “io ritengo che sia giusto criticare gli altri quando sbagliano”.

Mi raccomando, utilizzatela solo se avete uno stile sottomesso: utilizzare unicamente questa forma vi farà percepire come egocentrici! Se invece la vostra tendenza è quella di utilizzare delle frasi impersonali, o parlare utilizzando molti luoghi comuni conviene utilizzarla, per situarsi e porre dei termini di confronto.

 

FONTE: http://www.igorvitale.org/2013/01/27/leadership-e-comunicazione-carismatica/

Le emozioni in azienda. Capire e utilizzare il lato emotivo di un gruppo.

Viviamo in aziende dove tutto è calcolato fino all’ultimo dettaglio. Il prodotto deve essere impacchettato in un certo modo, con determinati colori perché il consumatore medio, di una certa fascia di età, ad alcuni test ha gradito più una certa forma. I consulenti si autoinducono il sorriso per accogliere il cliente, perché un formatore gli ha detto che è meglio così. I cassieri possono avere frasi standard e un tempo predefinito di interazione col cliente. Gli operaihanno un numero di secondi prefissato per condurre i propri compiti, e mentre eseguono i compiti in squadre, un maxi schermo indica una sorta di classifica della squadra più produttiva, premiando la più veloce con delle immagini.

Esatto, proprio come facevano i comportamentisti, col condizionamento.

Eppure, taylorismo e fordismo, che hanno portato al boom della produzione, razionalizzando tutto, ci hanno fatto dimenticare che il gruppo ha degli aspetti emotivi cruciali.

Ovvero, come ci suggerisce Antonio Damasio (1995), le cognizioni e le emozioni non hanno istanze neurologiche realmente separate.

Già Le Bon (1985), fondatore della Psicologia delle folle, e Freud (1921), consideravano il gruppo come sede degli istinti emotivi, tribali. Per Freud il gruppo portava ad una sorta diregressione delle persone. La razionalizzazione dell’azienda ci ha fatto dimenticare il ruolo delle emozioni in azienda.

Perché le emozioni in azienda sono importanti? Perché le emozioni sono un grande sistema motivante (emozione ha anche la stessa radice etimologica di motivazione).

Tutta la ricerca sull’impegno del dipendente in azienda, che assimila nelle meta analisi più di 45.000 soggetti, in contesti lavorativi diversi, in tutto il mondo (Herscovitch & Meyer, 2001), mostra chiaramente che tra i vari tipi di impegno, quello che ha un effetto più importante è l’impegno affettivo verso l’organizzazione, ovvero il grado di attaccamento e coinvolgimento emotivo all’azienda. Sono invece meno influenti gli altri due tipi di impegno che hanno motivazioni più razionali (rimango in azienda perché devo rimanerci o rimango in azienda perché altrimenti ho dei costi oggettivi).

In altre parole la motivazione: “lavoro in azienda perché mi piace”

è molto più forte delle motivazioni: “lavoro in azienda perché devo lavorare” e “lavoro in azienda perché mi conviene, perché altrimenti ho dei costi”.

Potrebbero essere banalità per alcuni, ma sono anche quella classe di banalità solitamente dimenticate da chi ha ruoli di supervisione e gestione delle persone in azienda, da chi ha i ruoli di leadership. Come diceva Hegel: “Il noto, proprio perché è noto, non è conosciuto”.

Quali sono i benefici dell’attaccamento affettivo all’azienda (impegno affettivo)?

1. Maggiore soddisfazione lavorativa. I dipendenti sono più soddisfatti di aziende a cui sono legati emotivamente.

2. Minore turnover. E’ meno probabile che il dipendente lasci l’azienda, se è emotivamente coinvolto.

3. Maggiore impegno verso il cambiamento. Il dipendente, coinvolto in azienda, sarà più propenso a gestire e partecipare ad operazioni di change management.

4. Minore livello di stress. Lo stress ha importanti ripercussioni fisiologiche, incidendo fortemente nella performance, e riducendo fino all’80% le difese immunitarie, prevenirlo è sempre buona cosa.

5. Maggiore altruismo. I comportamenti altruistici sono quei comportamenti non prescritti, né remunerati che il dipendente attua spontaneamente nei confronti di collaboratori e leader.

Tutti questi effetti del coinvolgimento emotivo all’azienda incidono fortemente sulla performance aziendale. Favoriscono da una parte la performance, dall’altra il benessere della persona e dell’azienda.

 

Fonte: http://www.igorvitale.org/2012/10/07/le-emozioni-in-azienda-capire-e-utilizzare-il-lato-emotivo-di-un-gruppo/

Leadership: competenza, calore e moralità

Secondo Il Modello del Contenuto degli Stereotipi (SCM; Cuddy, Fiske & Glick, 2008; Fiske, Cuddy, Glick & Xu, 2002), sono due le principali dimensioni su cui si fonda la percezione sociale: competenza e calore. Queste dimensioni sono influenzate rispettivamente dalla competizione intergruppi e dallo status dell’outgroup. In particolare quanto più elevato è lo status, tanto maggiore è la competenza percepita di un outgroup, mentre la competizione accentua la mancanza di calore (Fiske, Xu, Cuddy, Glick, 1999).

Inoltre la combinazione della presenza o meno di competenza e calore elicita diverse emozioni verso l’outgroup: ammirazione, disprezzo, invidia, pietà.

Secondo Fiske, Cuddy e Glick (2006), queste percezioni sociali, come tutte le percezioni, riflettono ragioni evoluzionistiche. Proprio come per tutti gli animali, anche gli uomini hanno bisogno di determinare in poco tempo se l’altro è amico o nemico. Per questo chi è percepito come caldo e competente elicita emozioni positive (ammirazione), mentre chi non è percepito né come caldo né come competente determina emozioni uniformemente negative (disprezzo). Coloro i quali sono classificati come caldi ma non competenti, o viceversa, elicitano prevedibilmente reazioni comportamentali e affettive ambivalenti (rispettivamente, il pregiudizio invidioso e quello paternalistico). Nel pregiudizio invidioso i membri dell’outgroup sono giudicati competenti, ma privi di calore; nel pregiudizio paternalistico i membri del gruppo target sono percepiti come caldi, ma incompetenti, esso è tipico dei dominanti nei confronti di subordinati percepiti come non minacciosi.

I risultati sperimentali degli studi di Judd, James-Hawkins, Yzerbit e Kashima (2005) mostrano come ci sia un meccanismo compensatorio tra competenza e calore: quando un oggetto sociale è percepito come molto competente tenderà ad essere percepito come poco caloroso e viceversa. Alcuni risultati di ricerca mostrano, inoltre, come questo meccanismo di compensazione sia accentuato nel caso in cui nel contesto comparativo sia presente un gruppo dalle caratteristiche opposte (Kervyn, Yzerbit, Demoulin & Judd, 2008).[1]

Uno studio cross-culturale di Cuddy, Fiske, Kwan, Glick, Demoulin et al. (2009) ha confermato l’universalità di questo modello nelle sue caratteristiche principali, e alcune differenze. In questo studio (N = 1028) sono stati considerati sette paesi europei e tre paesi dell’est asiatico; i paesi europei, seguendo una categorizzazione usata da Markus e Kitayama (1991) sono considerateculture individualistiche, mentre i paesi dell’est asiatico sono considerate culture collettivistiche.[2] Dallo studio cross-culturale risultano confermate tre ipotesi nelle 10 nazioni studiate (ibidem,2008, p.10):

  1. calore e competenza percepiti differenziano gli stereotipi sociali di gruppo in maniera affidabile;
  2. vengono associati spesso stereotipi ambivalenti agli outgroup (alto calore, bassa competenza o bassa competenza e alto calore);
  3. i gruppi di alto status stereotipicamente sono competenti, mentre i gruppi competitivi stereotipicamente manca il calore;

Si è trovata, invece, una differenza tra le culture analizzate: le culture collettiviste non posizionano la propria cultura nel cluster positivo (alto calore e alta competenza) così come fanno le culture individualistiche.

Leach, Ellemers e Barreto (2007, p. 236) rilevano come, nel valutare le dimensioni della percezione sociale, sia stata tralasciato un aspetto centrale, cioè quello della moralità: “l’importanza della moralità non è chiara in quanto in alcuni studi che hanno considerato la moralità, essa è stata confusa con altre caratteristiche come la dominanza e la socievolezza”; infatti, è possibile per un gruppo essere morali senza essere socievoli, come è possibile essere morali senza essere competenti, e viceversa. In questo studio, le autrici notano come la teoria della identità sociale (Tajfel, 1974) assume che qualunque caratteristica utilizzata per definire l’ingroup possa consentire di stabilire una sua valutazione positiva. Quindi, come è possibile utilizzare la competenza o il calore per formulare questa valutazione positiva, è possibile utilizzare anche la moralità. La caratteristica più usata è la competenza, tuttavia come rilevano Tajfel e Turner (1979), quando c’è un divario nella competenza dei gruppi di confronto, il gruppo di basso status utilizza strategie di “creatività sociale” per affermare la valutazione positiva dell’ingroup, ovvero affermano di disporre di una minore competenza, ma aumenta il favoritismo dell’ingroup per quanto riguarda un’altra caratteristica, ad esempio il calore. Esistono alcune evidenze relative all’uso della moralità come caratteristica di valutazione positiva del proprio ingroup nelle strategie di creatività sociale.

Leach, Ellemers et al. (2007, Studio 1) hanno chiesto a 84 studenti universitari di definire quanto fossero importanti moralità, calore e competenza, valutandole su 9 tratti (tre per fattore) per il proprio gruppo. Dall’analisi fattoriale confermativa si è trovata una buona struttura fattoriale, come previsto a tre fattori, con tutte le saturazioni statisticamente significative. La distinzione tra i tre fattori è inoltre sottolineata dal fatto che solamente la moralità era correlata con la correttezza, solamente la competenza dell’ingroup era correlata con il successo, solamente la socievolezza era correlata con la comunanza. La varianza spiegata durante la prima estrazione dell’analisi fattoriale è massima per la moralità (32.98%), seguita da competenza (15.64%) e calore (6.95%). Chiedendo ai partecipanti quale fosse l’importanza, in valore assoluto, di ogni tratto, i tratti relativi alla moralità sono stati considerati come più importanti (M = 6.93, DS = .65).  Per verificare la bontà di questa struttura fattoriale, in un secondo studio si è chiesto, in maniera meno diretta, tra diversi tratti quali fossero importanti per la valutazione positiva dell’ingroup, creato sperimentalmente (gruppi quasi-minimali). Anche in questo secondo studio la struttura fattoriale (analisi fattoriale esplorativa) rimane invariata a tre fattori: calore, competenza e moralità. Nello Studio 2 si è voluto, inoltre, valutare il legame tra identificazione con l’ingroup e attribuzione all’ingroup di tratti di  calore, competenza e moralità, con l’ipotesi, poi verificata, che l’identificazione fosse maggiormente predittiva dell’attribuzione dei tratti di moralità, rispetto ai tratti di competenza e calore.

Alcune manipolazioni sperimentali di moralità e competenza nello Studio 3, moralità e calore nello Studio 4, hanno mostrato che solo la moralità dell’ingroup influenza gli aspetti del concetto di sé a livello di gruppo nelle valutazioni positive. Coerentemente con questo risultato, l’identificazione con gruppi creati sperimentalmente e naturali ha influenzato positivamente l’attribuzione della moralità all’ingroup, cosa che non accade con la competenza.

Nella ricerca sulla leadership ci sono diverse caratteristiche del leader che possono essere ricondotte alla competenza, come intelligenza, capacità concettuali, di decisione nel giudizio, altre al calore come abilità interpersonali e sociali (vedi ad es., Stogdill, 1974). Anche gli studi relativi al comportamento del leader, cioè l’orientamento alle relazioni interpersonali (ad es., consideration) e l’orientamento al raggiungimento degli obiettivi (ad es., initiation structure) possono essere ricondotti alle due dimensioni fondamentali del giudizio sociale previste dalla teoria di Fiske et al (2002).

Altri aspetti che spiegano perché la teoria del contenuto degli stereotipi di Fiske et al. (2002) può essere d’aiuto nel comprendere la leadership sono:

1. la teoria dello scambio tra leader e membro, che fonda il suo funzionamento sulla norma di reciprocità;

2. il concetto di leadership come profondo processo relazionale ed emozionale.

La teoria sullo scambio tra leader e membro.

La ricerca sullo scambio leader-membro (Dansereau, Graen, & Haga, 1975) ha mostrato come esso sia legato positivamente ad esiti positivi in ambito lavorativo, questo accade perché all’aumentare degli scambi tra leader e dipendenti nell’organizzazione aumentano i benefittangibili che riguardano la possibilità di influenzare le decisioni aziendali, l’avanzamento di carriera, e l’aumento della retribuzione e quelli intangibili, relativi cioè alla comunicazione con i leader, e alla relazione basata sulla fiducia.

 

La norma di reciprocità

 

La teoria dello scambio leader-membro (LMX), si basa sulla norma di reciprocità (Mauss, 1925;Gouldner, 1960, Cialdini 1986). La norma di reciprocità è una norma per cui si tende a ricambiare un dono, concreto o astratto che sia. La diffusione di questa norma è stata studiata sostanzialmente in tutte le culture e definita nell’articolo di Gouldner (1960), il quale dà unaspiegazione evoluzionistica allo sviluppo di questa norma. Alvin Gouldner, antropologo e sociologo, definisce il concetto di reciprocità, inquadrandolo non solo come una norma implicita che è stata funzionale all’evoluzione e alla sopravvivenza dell’uomo primitivo, ma anche come principio di coesione sociale. La pervasività di questa norma ha permesso ad alcuni di parlare addirittura di uomo-in-reciprocità o di homo reciprocus (Becker, 1950). Scrive Hobhouse (1906, p.12) “la reciprocità pervade ogni aspetto della vita primitiva”; questa norma, infatti, è stata fondamentale alla sopravvivenza della specie secondo alcuni teorici, in quanto la reciprocità, il dare con l’aspettativa di avere un ritorno, ha consentito, nelle società primitive, una rete di scambi di risorse funzionale alla sopravvivenza. Per Gouldner, questo non è tutto, in accordo con Simmel che afferma: “la coesione e l’equilibrio sociale non possono esistere senza la norma della reciprocità” (Simmel, 1950, p.387). Con Simmel, cioè, non c’è più solo una funzionalità nella sopravvivenza della specie in discussione, ma anche la coesione e l’equilibrio sociale tra i meriti della reciprocità. La reciprocità è considerata una norma universale. Gouldner critica le correnti relativiste della reciprocità, che postulavano una reciprocità come relativa solo ad alcune culture, e scrive: “può essere ipotizzato che la norma di reciprocità è universale […] credo, che la norma di reciprocità non sia meno universale del tabù dell’incesto, sebbene, similarmente ad esso, può variare in base al contesto culturale e al periodo storico” (Gouldner, 1960, p.171).

Per Gouldner la norma di reciprocità ha due aspetti principali:

a)      le persone dovrebbero aiutare chi ha aiutato loro in passato;

b)      le persone non dovrebbero danneggiare chi ha aiutato loro in passato.

Gouldner distingue, inoltre, la reciprocità eteromorfica dalla reciprocità omomorfica. La prima prevede che “le cose scambiate possono essere diverse tra di loro in concreto ma dovrebbero essere equivalenti in valore”, mentre la reciprocità omomorfica “prevede che le cose scambiate dovrebbero essere in concreto simili, o identiche tra di loro” (Gouldner, 1960, p. 172). Un esempio perfetto di reciprocità omomorfica negativa è la lex talionis (o legge del taglione), principio di diritto utilizzato nelle popolazioni antiche per cui chi aveva prodotto un danno doveva subirlo in eguale misura, legge la cui “enfasi è stabilita non nello scambio di vantaggi, ma nella riproduzione dei danni” (Gouldner, 1960, p. 173).

Il principale dato che non ha preso in considerazione Gouldner, ma che è stato trovato dalla ricerca successiva sul concetto di reciprocità, sta nel fatto che nello scambio di reciprocazione spesso non si scambiano beni equivalenti in valore: il valore dei beni scambiato può essere diverso. Altro aspetto trascurato da Gouldner è il valore simbolico che possono avere i beni scambiati. Per questo motivo, nelle organizzazioni, all’aumentare degli scambi tra leader e membro, aumentano i benefici tangibili e intangibili, aumenta la tendenza a ricambiare. Secondo la letteratura, questa tendenza a ricambiare si esprime mediante aumenti della soddisfazione lavorativa, della performance lavorativa e dei comportamenti di cittadinanza organizzativa.

La leadership come profondo processo relazionale ed emozionale.

Recentemente le emozioni sono state oggetto di interesse nello studio della vita organizzativa,sia per quanto riguarda lo studio delle decisioni economiche sia dal punto di vista della leadership. L’assunto economico per cui l’uomo (homo oeconomicus) tende unicamente a massimizzare l’utile, era stato già messo in crisi del premio Nobel Herbert Simon (1955), con la teoria della razionalità limitata. Gli studi sulla violazione dei principi di razionalità nelle decisioni umane (Kahneman, 1994, 2003a, 2003b; Tversky & Kahneman, 1974, 1981, 1986, 1992), hanno portato sempre di più l’attenzione dei ricercatori ai processi emotivi che determinano le scelte umane. In ambito organizzativo, il ruolo delle emozioni nelle scelte e nei processi relazionali era stato già preso in considerazione da Fineman, che nel 1993, ha definito le organizzazioni comearene emotive, e ha sostenuto come molti degli obiettivi organizzativi, le strategie di azione, il modo di organizzare e gestire le persone risultano poco comprensibili se si resta solamente sul piano razionale. Dal punto di vista di George (2000 p. 1046), la leadership è un “processo caratterizzato dalle emozioni, sia dalla prospettiva del leader, sia da quella del seguace.” La teoria degli eventi affettivi di Weiss e Cropanzano (1996) afferma che le reazioni emotive dei dipendenti hanno un’influenza diretta sui loro comportamenti e atteggiamenti. Alcuni studi mostrano che le emozioni negative (rabbia, paura) e positive (gioia, piacere), hanno un impatto su molti costrutti come il benessere, la soddisfazione lavorativa, la performance, la creatività, il turnover e i comportamenti prosociali (Greenberg,  Ashton-James, & Ashkanasy, 2007; Cropanzano, James & Konowsky, 1993; Lyubominrsky, King & Deiner, 2005; Wright & Cropanzano, 2004). I leader possono comunicare e condividere, attraverso le loro emozioni, significati e valori comuni (Avolio, Howell, & Sosik, 1999; Damen, van Knippenberg & van Knippenberg, 2008; Van Maanen & Kunda, 1989), ma possono anche comportarsi in un modo che evochi certe emozioni.

Le emozioni previste nella teoria del contenuto degli stereotipi (Fiske et al. 2002; vedi Figura 2)  possono essere ricondotte alle emozioni positive, proposte da Haidt, 2003) che lodano gli altri (otherpraising emotion) ovvero elevazione, gratitudine e ammirazione.

L’Elevazione rappresenta la risposta emozionale alle azioni che esprimono bellezza morale e virtù. La Gratitudine è la sensazione che deriva dall’essere beneficiari dell’azione morale di un altro individuo che prescinde da aspetti utilitaristici. L’Ammirazione corrisponde al sentimento delle persone quando osservano in altri individui una serie di abilità, talenti o successo (Haidt & Keltner, 2004). L’ammirazione nei confronti del leader, dunque, è un’emozione positiva che in un ambiente di lavoro potrebbe influenzare positivamente atteggiamenti e comportamenti organizzativi, può essere determinata dalle attribuzioni al leader dei tratti di competenza e calore.

 

Fonte: http://www.igorvitale.org/2013/02/06/leadership-competenza-calore-e-moralita/

 

Autoefficacia percepita: definizione di Bandura

Il costrutto di autoefficacia (self-efficacy) è stato elaborato da Albert Bandura [1986] e la sua definizione esprime delle percezioni soggettive a proposito di

  • Qualità possedute rispetto alle richieste del compito tenendo conto della sua complessità e le condizioni per svolgerlo (competenza percepita)
  • Aspettative di ottenere un esito positivo
  • Salienza del compito e della situazione rispetto alle proprie skills.

Secondo Bandura l’autoefficacia (self-efficacy) ha tre dimensioni

  1. generalità: ovvero il grado in cui l’autoefficacia si generalizza, si estende, si trasferisce di situazione in situazione
  2. la forza: grado di certezza della percezione di autoefficacia
  3. il livello: cioè il grado in cui risulta alta la percezione di controllabilità della situazione.

L’autoefficacia (self-efficacy) si inserisce all’interno della teoria dell’apprendimento sociale. L’autoefficacia deriva dai fattori di esperienza e di apprendimento sociale, in particolare è necessario distinguere l’aver affrontato con successo compiti analoghi a quello attuale oppure ad aver potuto modellare comportamenti che hanno avuto una realizzazione positiva in compiti similari (apprendimento vicariante).

Se non è del tutto possibile isolare quali siano le determinanti del maggiore successo degli ottimisti, la teoria dell’autoefficacia percepita è corroborata da numerose ricerche empiriche e sperimentali:

  1. la modificazione dell’autoefficacia percepita determina modificazioni significative nei livelli di prestazione, umore, impegno, efficienza nei processi di pensiero, benessere soggettivo e stato di salute;
  2. può essere opportunamente rafforzata;
  3. l’autoefficacia è sempre specifica a un ambito di attività, prove, situazioni, dunque l’autoefficacia può variare al variare degli ambiti in cui la consideriamo.

Si distingue dall’ottimismo e corrisponde alla convinzione di “sapere di saper fare”.

È possibile incrementare l’autoefficacia percepita mediante programmi d’intervento che comprendono quattro step:

  1. la persuasione: è necessario che la persona si persuada della possibilità di riuscire mediante l’acquisizione di informazioni, la ricognizione dei propri punti di forza e di debolezza, è il vaglio della situazione; infine il confronto con gli altri è il riferimento al comportamento agito;
  2. l’imitazione
  3. l’esecuzione
  4. la monitorizzazione delle reazioni corporee che a volte si accompagnano all’esecuzione di un’attività

In genere le persone con un basso senso di autoefficacia percepita, evitano  i compiti impegnativi i quali vengono percepiti come elementi di minaccia. Generalmente hanno bassi livelli di aspirazione e si impiegano moderatamente nel perseguimento degli scopi, in situazioni problematiche tendono a focalizzare sulle proprie debolezze, sugli ostacoli delle situazioni, sull’avversità degli esiti.

Accade invece il contrario negli individui che hanno un alto livello di autoefficacia percepita. Queste sono generalmente attratte da compiti difficili che sono rappresentati come occasioni per mettere alla prova le proprie capacità. In queste personalità riscontriamo alti livelli di aspirazione e impegno nelle attività volte al raggiungimento degli scopi prefissati.

L’autoefficacia percepita non agisce solo sulle proprie autopercezioni, ma anche sui sistemi autonomico ed immunitario; per un verso aumenta la tolleranza della sofferenza per l’altro, attiva difese nei confronti dell’insorgere della malattia, pone riparo agli agenti patogeni, infine favorisce l’abbandono di condotte patogene.

Cultura aziendale di Edgar Schein: definizione e significato

Secondo Edgar Schein la cultura aziendale è importante. Lo è perché decisioni prese senza avere consapevolezza delle forze culturali in atto possono produrre conseguenze inattese e indesiderate.

Le questioni culturali sono quindi decisive in un contesto aziendale ad esempio nelle fusioni, nelle acquisizioni e nelle joint venture.

Quando le organizzazioni, che hanno sviluppato una loro cultura aziendale ne acquisiscono altre, si fondono o fanno una joint venture, la questione della cultura aziendale diventa ancora più evidente. Quando questa comincia a funzionare, si sente dire la frase retorica “prenderemo il meglio da entrambe le culture”, ma un attento dato dei fatti ci porta ad una diversa analisi della situazione. Le tre possibili soluzioni sono:

Culture aziendali separate:

Le culture rimangono separate in conglomerati che permettono alle società controllate di mantenere la propria identità specifica.

In questi casi le culture hanno bisogno di essere “allineate”, nel senso che non devono lavorare a obiettivi opposti. L’allineamento è più facile se i proprietari devono amministrare l’azienda attraverso limitati legami finanziarie. In uno studio di Salk (1992), in 55 joint-venture con case madri di paesi diversi sono state trovate scarsissime prove di commistione iniziale. Complessivamente, la psicologia dei rapporti tra gruppi ci suggerisce che questa situazione non è di sicuro quella ottimale, la presenza di culture separate e diverse spesso porta a opposizioni e contrasti tra i due gruppi.

Cultura aziendale dominante:

Una domina sull’altra, Schein afferma, per la sua esperienza che una cultura aziendale è sempre dominante, ma questa realtà può rimanere nascosta per un certo tempo proprio a causa della retorica. Ad esempio la Hp quando inglobò la Apollo né addestrò obbligatoriamente i dipendenti della Apollo affinché adottassero la cultura aziendale tipica dell’HP.

Commistione di culture:

Le culture aziendali si mescolano, si integrano. Un livello di commistione è la creazione di una nuova, sovrapposta serie di valori, e la sua “vendita” alle varie unità culturali. A un altro livello di commistione, la nuova organizzazione cerca di valutare i suoi vari sistemi e le sue procedure l’una rispetto all’altra e rispetto a ciò che è esternamente percepito come “pratica migliore”.

La commistione di cultura è una situazione invece utile per l’azienda, in quanto porta alla produzione di una nuova identità sovraordinata alle due precedenti: questa situazione porta a un clima aziendale più adeguato

Dove risiede la cultura aziendale? Come può esssere definita?

Secondo Schein: la cultura aziendale è una proprietà di un gruppo. Ogni volta che un gruppo ha abbastanza esperienza in comune comincia a formarsi una cultura. Ci sono culture a ogni livello (dipartimenti, gruppi funzionali, unità organizzative, intera organizzazione). Ogni persona è un’ entità multiculturale, mostra differenti comportamenti culturali a seconda di quanto viene richiesto dalla situazione. Per spiegare il comportamento individuale bisogna andare oltre la personalità e cercare l’appartenenza a un gruppo e le culture aziendale che gli sono proprie.

Sarebbe bello e in qualche modo facile affermare che la cultura è solo “il modo in cui facciamo le cose da queste parti”, “i riti e i rituali della nostra impresa”, “il clima dell’impresa”, “il sistema premiante”.

Tutte queste sono definite da Schein come manifestazioni della cultura, ma non come cultura

La cultura d’impresa per Schein è costituita da tre livelli fondamentalmente e vanno dal più visibile al più nascosto, sottinteso e dato per scontato

Primo livello: artefatti

Il livello più immediato di osservazione è quello degli artefatti: quello che si vede, si ascolta e si prova quando si va in giro. Quello che non si sa è cosa questo significhi. A livello di artefatti lacultura aziendale è molto chiara e ha un immediato impatto emotivo. Ma non si sa veramente perché i membri delle organizzazioni si comportino in questo modo.

Secondo livello: valori dichiarati

Perché si agisce in un certo modo? Perché un’azienda può creare spazi aperti negli uffici mentre un’altra preferisce lavorare a  ha porte chiuse? Vanno indagati i valori dichiarati. Ovvero ciò che l’azienda dichiara ufficialmente ad esempio nella Carta Etica o nelle mission e vision dichiarate. Nella prima azienda potrebbero affermare che loro credono nel lavoro di squadra, nell’altra azienda invece potrebbero dichiarare nei valori ufficiali che non si può giungere a decisioni valide senza un’attenta riflessione… Ma qui arriva la sorpresa, classicamente entrambe le aziende, culturalmente molto diverse, in termini di valori dichiarati affermano la stessa cosa: dichiarano un orientamento al cliente, l’attenzione al lavoro di squadra, l’interesse per la qualità del lavoro, l’integrità e così via. Come è possibile?

I valori dichiarati di un’azienda, aspetto banale quanto importante, può dichiarare valori che non sono realmente ritenuti importanti dall’azienda in sé.

Terzo livello: assunti taciti condivisi

L’essenza della cultura aziendale è costituita da valori, convinzioni e assunti imparati insieme che divengono comuni e dati per scontati mentre l’impresa continua ad avere successo. E’ importante ricordare che sono il risultato di un processo congiunto di apprendimento. In origine erano solo nella mente del fondatore e dei leader. Diventano comuni e scontati solo quando i nuovi membri dell’organizzazione comprendono che sono state le convinzioni, i valori e gli assunti dei loro fondatori a condurre al successo organizzativo e che quindi devono essere “giusti”. Se si descrivono alla Multi le persone della Action ci si sentirà dire che l’altro gruppo “sta sbagliando tutto”.

Da una parte si capisce che la cultura aziendale non è facile da cambiare, dall’altra si comprende che le parti importanti di una cultura aziendale sono essenzialmente invisibili. A questo più profondo livello, si può pensare alla cultura come ai modelli mentali che i membri dell’organizzazione considerano comuni e dati per scontati: essi non potrebbero immediatamente spiegare cos’è la loro cultura più di quanto un pesce , se potesse parlare, saprebbe dire cos’è l’acqua.

Non esiste una cultura giusta o sbagliata se non in relazione a quello che sta cercando di fare e all’ambiente. La grande capacità del consulente che si occupa di cultura aziendale è proprio quello di saper leggere correttamente il contesto storico, politico ed economico in cui l’azienda si trova.

Edgar Schein riassume affermando che la cultura sono i suoi assunti di base e non semplicemente “il modo in cui facciamo le cose da queste parti”.

  1. La cultura è profonda: Se la si considera come una cosa superficiale (ad esempio a livello di artefatti) non la si riesce a modificare
  2. La cultura è ampia: Decifrare la cultura è un compito senza fine. Se non si hanno scopi e ragioni per voler comprendere la propria organizzazione, il compio sarà sconfinato e frustrante. Ogni cambiamento culturale, provoca una grande quantità di ansia e resistenza al cambiamento.