a cura di Carolina Lazzari
Negli ultimi tempi, capita sempre più spesso di leggere nei giornali notizie di persone, che in seguito alla fine di una relazione amorosa, si sono suicidate o che hanno ucciso l’ex. Di certo non tutti arrivano a questi comportamenti estremi ma quanti di noi non hanno almeno un amico o un’amica che non riesce ad accettare la fine di una relazione o che controlla costantemente l’ex o persino una persona che gli piace, su facebook, instragram, twitter e così via.
L’esperienza della separazione ci accompagna sin dalla nascita e rappresenta la prima e vera angoscia che il bambino si trova ad affrontare. Otto Rank scrisse un saggio intitolato “il trauma della nascita”, in cui descrisse la separazione dall’utero materno, dalla placenta, come un vero e proprio trauma. Allo stesso modo, Freud parlava di “trauma primitivo”. In effetti, se ci soffermiamo solo un momento a pensarci, il neonato passa improvvisamente da un luogo caldo e silenzioso, in cui i suoi bisogni vengono soddisfatti, ad un luogo sconosciuto, rumoroso, con persone che parlano in modo incomprensibile, vedendo cose a cui non sanno attribuire un significato e in cui i suoi bisogni non vengono soddisfatti immediatamente, senza chiedere.
Passa quindi, da una sorta di situazione di “onnipotenza”, ovvero di assenza di bisogni, ad una situazione di attesa, di frustrazione e con numerose stimolazioni. In questa transizione un ruolo primario lo svolge la madre, che se “sufficientemente buona”, riprendendo la terminologia usata da Winnicott, grazie al contenimento e alla comprensione emozionale, riesce a introdurre la realtà a piccole dosi, riducendo gli stimoli troppo numerosi o intensi.
Grazie al contenimento psichico della madre, il neonato si sente compreso e sollevato dalle proprie angosce, introiettando una mente che pensa e strutturando la sua mente. Ciò gli permette di imparare a tollerare le frustrazioni e a stare da solo in quanto ha introiettato una madre presente ma non intrusiva, e di vivere quindi la separazione e il lutto. Possiamo intuire però, come una volta compreso che la sua sopravvivenza fisica e psicologica dipenda da un’altra persona, l’assenza della stessa, almeno inizialmente, generi angoscia in quanto mette a rischio la sua integrità.
Sotto questo aspetto, lo smartphone sembra non facilitare l’esperienza della separazione, del lutto. Il cellulare oggi è diventato un oggetto essenziale, al punto che quando ci accorgiamo di averlo dimenticato a casa, subentra una sorta di stato di panico perché in qualche modo non siamo più “connessi”, siamo tagliati fuori dal mondo. Se anni fa questa era una cosa normale o quanto meno tollerabile, oggi è fonte di frustrazione, di ansia. Rispetto al tema della separazione, lo smartphone assume un forte valore: esso infatti ci permette di “vincere” l’assenza, la perdita. Grazie all’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni, il cellulare è diventato un vero e proprio mini computer, che ci permette in ogni momento di comunicare con gli altri, di visualizzare le loro foto, di sentire la loro voce (tramite audio, video), e grazie all’avvento dei social, di “partecipare” alla loro vita, ai loro successi, viaggi ecc. anche in modalità “diretta”, ovvero nel momento stesso in cui la persona la sta vivendo. Questo ci permette di non sentirci mai soli pur in assenza di un reale contatto. Pensiamo per esempio, a tutte le volte che rimasti soli anche per pochi minuti (aspettando un treno o un amico che è andato al bagno) tiriamo fuori, senza neanche pensarci, il nostro cellulare.
Non solo, le applicazioni permettono ora di conoscere gli accessi, la visualizzazione o meno di un messaggio, aumentando in un certo senso le nostre pretese verso l’altro, per cui il visualizzato senza risposta diventa un “ce l’ha con me” o “mi ignora, non gli interessa”, escludendo quasi del tutto la possibilità che l’altro sia impegnato o che semplicemente non abbia voglia di rispondere. Vengono meno quindi, l’attesa, il riconoscimento dell’autonomia dell’altro, la capacità di stare soli e di vivere in maniera sana la separazione, a favore di una sempre maggior intolleranza della frustrazione e dell’incertezza.
Nonostante quindi l’avvento dello smartphone ci abbia palesemente agevolati in diversi ambiti della nostra vita (sociale, lavorativo, nelle attività quotidiane ecc.), come riportano molto chiaramente Riggi, Porceddu e Rizzo[1]: “il cellulare ha favorito un’amplificazione di meccanismi già esistenti in noi”, ravvivando il “ricordo” dell’esperienza di onnipotenza prima della nascita che, proseguono gli autori, “non accettiamo mai completamente di abbandonare, cercando ogni occasione per restaurarla”. Ciò diventa rilevante per una maggiore consapevolezza e senso critico nell’utilizzo di questo piccolo ma potente strumento.
Bibliografia
1. Porceddu Michele, Riggi Giuseppe, Rizzo Francesco. “Perché non mi rispondi? Psicologia e psicopatologia dei contatti frequenti con il cellulare”. Castel San Pietro Terme (BO), In.edit edizioni, 2018.
2. Blandino Giorgio. “Psicologia come funzione della mente: paradigmi psicodinamici per le professioni di aiuto”. Novara, De Agostini Scuola SpA, 2009.