Videogiochi: tra svago e Psicopatologia

A cura di Emilia Biviano

L’evoluzione della tecnologia, oltre che a rendere la vita più agiata e a migliorare la comunicazione, ha permesso anche di avere altre possibilità di svago virtuale senza troppo sforzo fisico. Infatti negli anni 70, negli USA, sono stati ideati i videogiochi, congegni che permettono alle persone di entrare in relazione con la televisione e che nel tempo sono diventati strumenti sempre più sofisticati, tanto che al giorno oggi rappresentano il principale divertimento utilizzato dai ragazzi più giovani, ma non solo. Ne esistono di diversi tipi: vi sono giochi che richiedono molta azione e che, secondo la ricerca di Sherry, Lucas e Greenberg, sono solitamente preferiti dai maschi; e altri che invece sono più riflessivi e più diffusi tra le femminile. Indipendentemente dal tipo di gioco, però, viene spesso da chiedersi quali sono i fenomeni psichici che spingono adulti e ragazzini ad approcciarsi a questo tipo di gioco, a persistere nel loro utilizzo e soprattutto quali conseguenze ne derivano.

Innanzitutto si ritiene che utilizzare i videogiochi è una semplice preferenza personale, così come può essere una scelta individuale leggere un libro piuttosto che guardare la televisione. Allo stesso modo preferire un tipo di videogioco piuttosto che un altro può dipendere dalle caratteristiche personologiche, ma anche dalle emozioni che si cercano: c’è chi va alla ricerca di un momento per rilassarsi, chi vuole divertimento carico di adrenalina. Inoltre chi gioca ha la possibilità di uscire dalla complessità della vita quotidiana, dai suoi problemi e di immergersi in un mondo dominato dalla fantasia.

Serger e Potts nel 2012 hanno parlato di “psychological flow state” per riferirsi a quello stato psicologico in cui si è totalmente immersi in un’attività piacevole che mette alla prova le proprie abilità permettendo al tempo stesso di rilassarsi. Dato che tale condizione emotiva non è costantemente presente durante il gioco, ma varia a seconda della sua difficoltà (giochi troppo difficili possono causare frustrazione, quelli troppo semplici possono essere vissuti come noiosi) in genere questi giochi sono organizzati su livelli sempre più complessi, dando la possibilità al giocatore di adattarsi e affinare sempre più le proprie competenze. Affinché si presenti il flusso emotivo è dunque necessario che si sviluppi un’abilità tale da portare a termine alcuni livelli del gioco stesso, ma è anche importante che quest’ultimo abbia determinate caratteristiche: grafiche e suoni devono permettere di concentrarsi per evitare distrazioni, gli obiettivi devono essere concreti e ben spiegati dai rispettivi tutorial e infine il giocatore deve sperimentare la sensazione di avere il controllo su quanto accade dentro al gioco.

Per quanto riguarda le conseguenze dei giochi virtuali, nonostante tale articolo abbia l’obiettivo di scoraggiarne l’uso, non si può non considerare che, secondo alcuni studi scientifici, queste attività di svago siano causa di alcuni effetti positivi: memoria, percezione, navigazione spaziale, ragionamento, problem solving e resilienza sono le principali abilità cognitive che vengono allenate e raffinate con l’uso dei videogiochi. Al contempo però, vi sono anche dati empirici che evidenziano come tale attività, a lungo andare, produca malessere fisico, caratterizzato da stanchezza, epilessia, difficoltà ad addormentarsi, tremore alle mani, ma anche un senso di malessere psichico, di cui l’aggressività, l’isolamento sociale, l’ansia, la depressione, ma soprattutto la dipendenza, sono i rappresentati.

Andando ad analizzare singolarmente queste conseguenze psicologiche, alcuni studi evidenziano come utilizzare dei videogiochi violenti incrementi l’aggressività del giocatore e, secondo Murray, questo effetto è maggiore rispetto alla violenza che viene veicolata dalla televisione. Chi utilizza questo tipo di svago, infatti tenderà ad avere variazioni fisiologiche e ad aumentare i propri pensieri aggressivi, soprattutto se, all’interno del gioco stesso, si ha la possibilità di agire più attivamente con la violenza, o di personalizzare gli avatar con le proprie caratteristiche fisiche: nei giochi in cui non sono presenti tali opzioni, infatti, la correlazione con l’aggressività risulta essere inferiore. Secondo Przybylski, l’aggressività aumenta nei soggetti che utilizzano videogiochi violenti a causa di alti li velli di frustrazione percepita durante il gioco. Per quanto riguarda l’isolamento sociale, giocare ai videogiochi priva il giocatore della possibilità di istaurare relazioni sociali poiché, impiegando spesso intere giornate davanti allo schermo, si tende ad immergersi in quel mondo di fantasia a tal punto da perdere il contatto con la realtà e l’interesse per qualsiasi tipo di relazione sociale.

Anche ansia e depressione sono spesso inserite tra le conseguenze negative dell’uso dei videogiochi: secondo lo studio condotto dalla Ioawa State University quanto più tempo si trascorre davanti a qualsiasi tipo di videogioco, tanto più il soggetto si sentirà frustato e di conseguenza proverà sensazioni di ansia e depressione, nonostante tali aspetti non facciano parte del suo temperamento.

Ma il principale problema psicologico che aumenta in modo proporzionale al tempo trascorso davanti al videogioco è la dipendenza: secondo il neurologo Cherubino Di Lorenzo, le stimolazioni luminose e le musichette ipnotiche contribuiscono a far imbambolare i ragazzini davanti al videogioco, il quale permette anche di avere micro-ricompense quando si supera il livello, e frustrazioni in caso di difficoltà. Attraverso tali meccanismi si attivano i circuiti neuronali “reward” cioè quelli della ricompensa, producendo così dipendenza. L’OMS ha inserito la dipendenza dal videogioco tra i disturbi psichiatrici, denominandola “Games Disorder”: si tratta di un disturbo, prevalente tra 12 e i 16 anni, a causa del quale il videogioco diventa l’interesse centrale della vita del giocatore, compromettendone le relazioni interpersonali e provocando alterazione dell’umore, ansia, cefalea, perdita dell’appetito, attacchi epilettici e sintomi depressivi. Si entra perciò in un vero e proprio stato d’astinenza in cui, quando la persona coinvolta non riesce a giocare è pervasa da cattivo umore e irritabilità.

Nonostante le varie conseguenze negative, è importante considerare il fatto che i ragazzi di oggi sono immersi nell’era della tecnologia e che questa faccia parte della loro vita, per cui proibirgli di non avere contatto con il mondo virtuale non è possibile. Di conseguenza il genitore può permettere al figlio di utilizzare questo tipo di svago, ma usando delle precauzioni: è possibile ad esempio imporre un tempo limite per giocare prima che il gioco abbi inizio, posizionare la consolle in un luogo di passaggio in cui si può facilmente controllare il bambino, comprare videogiochi adatti all’età del figlio, utilizzare l’opzione di salvare la partita quando è il momento di interrompere il gioco, per evitare proteste da parte del giocatore e proporre attività alternative piacevoli quando il gioco è finito.

 

Dislessia: Il potere della Musica

 

A cura di Sara Sperindei

La dislessia, il disturbo della decodifica di lettura (lettura decifrativa), è il caso più emblematico tra i disturbi specifici dell’apprendimento (DSA). La dislessia, ostacola il normale processo di interpretazione dei segni grafici mediante i quali vengono rappresentate per iscritto le parole.
Questi deficit relativi a rappresentazioni fonologiche, costituiscono un ostacolo nell’associazione grafema-fonema e/o fonema-grafema, che sono alla base dei sistemi di scrittura alfabetica.
A causa di questa difficoltà di transcodifica, la lettura avviene a stento ed è caratterizzata da numerosi errori.
Molti ricercatori sostengono che l’elaborazione fonologica, cioè la capacità di memorizzare, manipolare ed utilizzare i suoni del linguaggio, fondamentale per la lettura, sia compromessa nei bambini con dislessia. Infatti, durante l’elaborazione fonologica, nei bambini con dislessia, viene osservata una ridotta attivazione cerebrale nelle regioni temporo-parietali dell’emisfero sinistro, risultate importanti per la lettura.
Sebbene la musica sia tradizionalmente associata all’emisfero destro del cervello, è stato scoperto che processi musicali analitici, come la percezione del ritmo, siano elaborati principalmente nell’emisfero sinistro, responsabile dell’elaborazione del linguaggio. Sono state trovate anche correlazioni tra abilità ritmiche ed abilità di lettura, nonché abilità musicali generali ed abilità verbali. Ciò suggerisce che alcuni aspetti della musica e dell’elaborazione del linguaggio richiedono abilità cognitive simili.
I risultati di varie ricerche suggeriscono che l’impiego di queste regioni attraverso l’allenamento musicale, possa facilitare lo sviluppo di una rete neuronale compensatoria bilaterale, che aiuti i bambini con funzioni atipiche nelle regioni temporo-parietali dell’emisfero sinistro.
Infatti, gli studi longitudinali che impiegano la risonanza magnetica con bambini in età scolare, hanno dimostrato alterazioni neurali a seguito di un allenamento musicale strumentale.
In particolare, i bambini di sei anni che ricevono circa uno-due anni di formazione musicale strumentale, dimostrano cambiamenti strutturali in diverse regioni del cervello, in particolare nelle cortecce uditive primarie e nel corpo-calloso.
L’apprendimento musicale produce effetti sulla plasticità cerebrale, modificando aree importanti non solo per la musica ma anche per le abilità cognitive/percettive non musicali, le quali possono giocare un ruolo nella lettura. In sintesi, numerose prove suggeriscono che l’abilità musicale sia direttamente associata alla consapevolezza fonologica e alla capacità di lettura.
Ad esempio, è stato dimostrato che il picchiettamento (tapping) del numero di sillabe in una parola ad un ritmo costante possa migliorare le prestazioni di spelling dei dislessici. È stato anche dimostrato che la conoscenza delle filastrocche è fortemente correlata alla consapevolezza fonologica dei bambini; le filastrocche sono ovviamente basate sul ritmo e la rima del linguaggio.
I programmi di trattamento per le persone con dislessia possono essere implementati in varie misure da terapisti, tutor ed insegnanti. La maggior parte dei programmi che sviluppano abilità di lettura usano un approccio multisensoriale.
Un ulteriore aspetto interessante da analizzare riguarda i musicisti allenati, noti per avere abilità di elaborazione uditiva specializzate ma che mostrano anche una dislessia persistente. Nella storia, è infatti nota l’esistenza di grandi musicisti dislessici, a partire da Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven, John Lennon, fino ai giorni nostri con Mika e Robbie Williams, solo per citarne alcuni. La lettura della musica sullo spartito non è molto diversa dalla lettura delle lettere, infatti, le lettere, sono simboli corrispondenti ad un suono, esattamente come una nota scritta su uno spartito. Quindi esiste allo stesso modo il problema della codifica, ma, i musicisti dislessici, nonostante dimostrino difficoltà di lettura, evidenziano anche abilità uditive specializzate nel dominio musicale.
In conclusione, le persone con dislessia sono dotate di punti di forza in altre aree come la capacità di pensare in immagini anziché in parole, essere altamente intuitive e perspicaci, avere una vivida immaginazione ed essere in grado di percepire la multidimensionalità. È fondamentale quindi aumentare la consapevolezza dei punti di forza, in quanto le persone con dislessia possono spesso sviluppare una scarsa immagine di sé e sentirsi meno intelligenti dei loro coetanei.
Inoltre, la dislessia, comporta un impatto negativo per quanto riguarda le attività della vita quotidiana, ed in primis l’adattamento scolastico. Proprio per questo, il bambino tende ad avere, di conseguenza, dei problemi psicologici che possono riguardare la scarsa autostima o la demotivazione.
Sebbene la strada sia ancora lunga e ricca di sfide, i risultati riportati finora dai vari autori, aprono nuove vie sugli effetti benefici della musica e del suo uso riabilitativo nelle classi con bambini dislessici.

“Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita”.
(S. Freud)

Blog pro-ANA e pro-MIA: la ricerca della perfezione corre sul Web

A cura di Chiara TAGLIATESTA

Che cosa si intende per Disturbi del Comportamento Alimentare?
I DCA rappresentano una categoria di disturbi alquanto complessa e variegata.
Essi risultano caratterizzati da una rilevante modificazione delle abitudini alimentari e da una smisurata ed immotivata apprensione nei confronti del peso corporeo e della forma fisica.
L’insorgenza di tali disturbi si colloca, nella maggior parte dei casi, in pre-adolescenza ed in particolare in adolescenza. Lo sviluppo della sintomatologia già in età infantile, rappresenta un notevole fattore di rischio per la successiva manifestazione del disturbo.
I disturbi del comportamento alimentare si presentano con maggiore frequenza nel genere femminile rispetto a quello maschile, anche se da tempo si sta registrando un incremento delle richieste di cura da parte degli uomini.
All’interno del DSM-5 i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, come vengono attualmente definiti, si differenziano in sei principali categorie diagnostiche:
• Anoressia nervosa (è caratterizzata da un’importante restrizione nell’assunzione di calorie e da un peso corporeo eccessivamente basso, che si colloca quindi al di sotto dell’85% del peso atteso. La costante paura di ingrassare e un’imponente alterazione nella rappresentazione mentale dell’immagine corporea, portano la persona che ne soffre a percepirsi in una costante condizione di sovrappeso);
• Bulimia nervosa (è caratterizzata da episodi di abbuffate seguite da inopportuni comportamenti compensatori, almeno una volta a settimana, per tre mesi consecutivi. Il DSM-5 definisce un episodio di abbuffata “come l’ingestione di una quantità di cibo significativamente superiore a quella che la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo ed in circostanze simili”. La sensazione è quella di perdere il controllo durante l’abbuffata. Le condotte compensatorie, che mirano ad evitare l’aumento di peso, consistono nel vomito autoindotto, nell’abuso di farmaci anoressizzanti, lassativi e diuretici, nell’attività fisica eccessiva e nel digiuno);
• Pica (consiste nell’ingestione ripetuta e prolungata, almeno un mese, di sostanze non alimentari e non commestibili, come gomma, metallo, vernice, talco, ciottoli, ghiaccio o creta, ecc);
• Mericismo (detto anche disturbo di ruminazione, consiste nella pratica di rigurgitare, masticare e deglutire più volte lo stesso bolo alimentare);
• Disturbo alimentare evitante/restrittivo (è caratterizzato dall’evitare o limitare l’assunzione di cibo. In questo caso non è presente un’immagine distorta del corpo);
• Disturbo da alimentazione incontrollata o Binge Eating Disorder (è caratterizzato da frequenti episodi di abbuffate, almeno una volta a settimana, per tre mesi consecutivi, che non vengono seguiti da condotte di eliminazione o di controllo del peso. Ciò porta ad uno stato di grave sovrappeso o obesità. Questa condizione è generata da fattori psicologici, in assenza di cause genetiche o mediche).
Tra i fattori di rischio e di mantenimento dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, è necessario citare l’insoddisfazione per la propria immagine corporea, la bassa autostima, la vergogna, l’inadeguatezza, il criticismo percepito, il perfezionismo e lo smisurato bisogno di controllo. In molte circostanze il cibo viene usato per riempire un vuoto, per sentirsi esistere.
Negli ultimi anni, i Paesi occidentali e quelli in via di sviluppo si sono trovati ad affrontare la notevole proliferazione dei cosiddetti siti pro-ANA e pro-MIA, che inneggiano rispettivamente all’anoressia e alla bulimia. Questo fenomeno, comparso in Italia oltre dieci anni fa, è contraddistinto da una serie di spazi virtuali (chat, forum, blog, diari), in cui giovani adolescenti si scambiano consigli su come perdere peso velocemente, mantenendo un rigoroso controllo sul proprio corpo. Si trovano quindi indicazioni su come seguire diete estremamente restrittive (massimo 500 calorie giornaliere), compensare l’assunzione di cibo attraverso il vomito, il digiuno e l’attività fisica portata al massimo grado. Nonostante alcuni di questi siti sostengano di offrire supporto alle persone che cercano di uscire da questi disturbi, nella realtà offrono consigli su come farli perdurare. I forum di cui si parla sono tutti privati, per accedere è necessario contattare la responsabile, che a sua discrezione, potrà decidere se permettere alla nuova adepta di entrare nella cerchia. Il pro-ana rappresenta una vera e propria filosofia di vita, tutto viene sacrificato e annullato in nome della Dea Magrezza. Le ragazze che vi entrano a fare parte, vengono aggiunte anche in gruppi WhatsApp, all’interno dei quali iniziano a seguire rigidamente i precetti pro-ANA e pro-MIA. In caso contrario, diventerebbero delle “vacche grasse”, sempre e comunque imperfette. I comandamenti vanno seguiti alla lettera. Occorre sacrificare tutto, anche la vita, se ciò è utile a diventare pelle e ossa. “Se non sei magra, non sei attraente”, recita così il primo comandamento. E si prosegue con “essere magri è più importante che essere sani o ancora “l’unico Dio che conta davvero è la bilancia”, “se tu mangi, ti devi punire”, “bevi un bicchiere d’acqua ogni ora, ti farà sentire piena, “compra vestiti di taglie più piccole ed appendili dove li puoi vedere, “mangia nuda di fronte allo specchio, “preparati una lista di scuse per cui non puoi mangiare”. Vengono postate foto di magrezza estrema, solitamente delle ossa, ma anche atti di autolesionismo, in particolare tagli e ferite ancora sanguinanti. In tale modo, il lato esibizionista trova appagamento.
Alcuni studi hanno dimostrato, che dopo aver navigato sui diversi siti pro-ANA, un numero notevole di giovani donne presentavano un abbassamento dell’autostima, una percezione peggiorata della propria immagine corporea e una propensione più spiccata al confronto rispetto alla propria forma fisica. Si tratta di una vera e propria celebrazione del disturbo alimentare. L’obiettivo principale è il raggiungimento della perfezione, della magrezza ad ogni costo. Stephanie Tierney, in un lavoro di ricerca del 2006, ritiene che questi siti hanno raggiunto tale risonanza in quanto facilitano la formazione di un senso di comunità e di appartenenza tra le persone affette dal disturbo. Essi promuovono inoltre lo sviluppo di un senso di identità e incoraggiano la ricerca di informazioni su come perdere peso. Interessanti sono le parole di Rose, 17 anni, frequentatrice per due anni di un gruppo pro-ANA su Facebook: “Questi siti mi hanno permesso di trovare un luogo dove poter parlare del mio disturbo senza che ci fosse qualcuno che tentasse a tutti i costi di mettermi a posto o di dirmi che quello che stavo facendo era orribile e disgustoso. Per me, buona parte del problema era il cercare di ricevere attenzioni. Mi sentivo così sola e volevo solo che qualcuno mi notasse, e ho trovato quel modo”.
Si parla di una rete di circa 300mila siti, a cui vanno aggiunti gli account dei social network.
Occorre intervenire, subito, e con ogni mezzo a disposizione.

Sitografia:

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http://osservatorioproana.altervista.org/

L’angoscia di separazione ai tempi dello smartphone

a cura di Carolina Lazzari

Negli ultimi tempi, capita sempre più spesso di leggere nei giornali notizie di persone, che in seguito alla fine di una relazione amorosa, si sono suicidate o che hanno ucciso l’ex. Di certo non tutti arrivano a questi comportamenti estremi ma quanti di noi non hanno almeno un amico o un’amica che non riesce ad accettare la fine di una relazione o che controlla costantemente l’ex o persino una persona che gli piace, su facebook, instragram, twitter e così via.
L’esperienza della separazione ci accompagna sin dalla nascita e rappresenta la prima e vera angoscia che il bambino si trova ad affrontare. Otto Rank scrisse un saggio intitolato “il trauma della nascita”, in cui descrisse la separazione dall’utero materno, dalla placenta, come un vero e proprio trauma. Allo stesso modo, Freud parlava di “trauma primitivo”. In effetti, se ci soffermiamo solo un momento a pensarci, il neonato passa improvvisamente da un luogo caldo e silenzioso, in cui i suoi bisogni vengono soddisfatti, ad un luogo sconosciuto, rumoroso, con persone che parlano in modo incomprensibile, vedendo cose a cui non sanno attribuire un significato e in cui i suoi bisogni non vengono soddisfatti immediatamente, senza chiedere.
Passa quindi, da una sorta di situazione di “onnipotenza”, ovvero di assenza di bisogni, ad una situazione di attesa, di frustrazione e con numerose stimolazioni. In questa transizione un ruolo primario lo svolge la madre, che se “sufficientemente buona”, riprendendo la terminologia usata da Winnicott, grazie al contenimento e alla comprensione emozionale, riesce a introdurre la realtà a piccole dosi, riducendo gli stimoli troppo numerosi o intensi.
Grazie al contenimento psichico della madre, il neonato si sente compreso e sollevato dalle proprie angosce, introiettando una mente che pensa e strutturando la sua mente. Ciò gli permette di imparare a tollerare le frustrazioni e a stare da solo in quanto ha introiettato una madre presente ma non intrusiva, e di vivere quindi la separazione e il lutto. Possiamo intuire però, come una volta compreso che la sua sopravvivenza fisica e psicologica dipenda da un’altra persona, l’assenza della stessa, almeno inizialmente, generi angoscia in quanto mette a rischio la sua integrità.
Sotto questo aspetto, lo smartphone sembra non facilitare l’esperienza della separazione, del lutto. Il cellulare oggi è diventato un oggetto essenziale, al punto che quando ci accorgiamo di averlo dimenticato a casa, subentra una sorta di stato di panico perché in qualche modo non siamo più “connessi”, siamo tagliati fuori dal mondo. Se anni fa questa era una cosa normale o quanto meno tollerabile, oggi è fonte di frustrazione, di ansia. Rispetto al tema della separazione, lo smartphone assume un forte valore: esso infatti ci permette di “vincere” l’assenza, la perdita. Grazie all’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni, il cellulare è diventato un vero e proprio mini computer, che ci permette in ogni momento di comunicare con gli altri, di visualizzare le loro foto, di sentire la loro voce (tramite audio, video), e grazie all’avvento dei social, di “partecipare” alla loro vita, ai loro successi, viaggi ecc. anche in modalità “diretta”, ovvero nel momento stesso in cui la persona la sta vivendo. Questo ci permette di non sentirci mai soli pur in assenza di un reale contatto. Pensiamo per esempio, a tutte le volte che rimasti soli anche per pochi minuti (aspettando un treno o un amico che è andato al bagno) tiriamo fuori, senza neanche pensarci, il nostro cellulare.
Non solo, le applicazioni permettono ora di conoscere gli accessi, la visualizzazione o meno di un messaggio, aumentando in un certo senso le nostre pretese verso l’altro, per cui il visualizzato senza risposta diventa un “ce l’ha con me” o “mi ignora, non gli interessa”, escludendo quasi del tutto la possibilità che l’altro sia impegnato o che semplicemente non abbia voglia di rispondere. Vengono meno quindi, l’attesa, il riconoscimento dell’autonomia dell’altro, la capacità di stare soli e di vivere in maniera sana la separazione, a favore di una sempre maggior intolleranza della frustrazione e dell’incertezza.
Nonostante quindi l’avvento dello smartphone ci abbia palesemente agevolati in diversi ambiti della nostra vita (sociale, lavorativo, nelle attività quotidiane ecc.), come riportano molto chiaramente Riggi, Porceddu e Rizzo[1]: “il cellulare ha favorito un’amplificazione di meccanismi già esistenti in noi”, ravvivando il “ricordo” dell’esperienza di onnipotenza prima della nascita che, proseguono gli autori, “non accettiamo mai completamente di abbandonare, cercando ogni occasione per restaurarla”. Ciò diventa rilevante per una maggiore consapevolezza e senso critico nell’utilizzo di questo piccolo ma potente strumento.

Bibliografia
1. Porceddu Michele, Riggi Giuseppe, Rizzo Francesco. “Perché non mi rispondi? Psicologia e psicopatologia dei contatti frequenti con il cellulare”. Castel San Pietro Terme (BO), In.edit edizioni, 2018.
2. Blandino Giorgio. “Psicologia come funzione della mente: paradigmi psicodinamici per le professioni di aiuto”. Novara, De Agostini Scuola SpA, 2009.

Il cervello emotivo: la sede delle emozioni

Nel gergo comune, emozioni e sentimenti sono simbolicamente rappresentati dal cuore, visto come la sede “dell’animo umano”. Si ha però la certezza scientifica che al cuore spetta l’importante funzione biologica di pompare sangue, ossigeno e funzioni nutritive in tutto l’organismo, ma tale organo non ha a che fare con la fisiologia dell’emotività.

Sorge allora spontanea una domanda: in quale parte del corpo umano “risiedono” le emozioni?

Nonostante il cuore sia un organo vitale, vi è un’altra parte importante dell’organismo che è fondamentale, perché permette di percepire il mondo circostante, imparare, controllare comportamenti, movimenti, pensieri e, appunto, le emozioni. Si tratta del Sistema Nervoso, ovvero l’insieme di organi e strutture che trasmettono segnali alle diverse parti del corpo per coordinare le funzioni fisiche e psicologiche. Tuttavia prima di capire dove “si collocano” le emozioni all’interno del Sistema Nervoso e come funzionano, è importante chiarire cosa si intende quando si parla di emozioni.

Su questo argomento la letteratura scientifica è molto ampia, per cui è possibile far riferimento a numerose teorie sulle emozioni. Darwin, studiando le espressioni facciali, ha dimostrato come queste siano universali, biologicamente innate, ma anche adattive dal punto di vista evolutivo, poiché permettono di adattarsi all’ambiente: chi si accorge di un pericolo, ad esempio, può facilmente comunicarlo agli altri membri del gruppo attraverso l’espressione facciale spontanea della paura.

Secondo la teoria di James-Lange (1884) l’emozione è la sensazione che deriva da modificazioni fisiologiche; Zajonc (1980) spiegò che le emozioni sono la prima risposta che un individuo fornisce ad un evento, mentre per Lazarus (1982) esse derivano dalla valutazione cognitiva degli eventi e della situazione ambientale.

Ekman (2008) ha elencano ben 7 emozioni primarie: rabbia, paura, tristezza, gioia, sorpresa, disprezzo e disgusto. Queste sono dette primarie in quanto rappresentano esperienze di base universali riscontrabili in popolazioni diverse e si differenziano dalle emozioni secondarie (come allegria, invidia, vergogna, gelosia, rimorso), in quanto queste ultime risultano della combinazione delle emozioni primarie.

In seguito a queste e molte altre teorie e ricerche, attualmente si ritiene che le emozioni siano delle risposte psicofisiologiche attraverso cui l’organismo risponde a ciò che accade attorno a lui, soprattutto se si tratta di cambiamenti ed eventi soggettivamente significativi. Si tratta quindi di aspetti importanti della vita dell’uomo che hanno a che fare con l’istinto di sopravvivenza e che, come tante altre funzioni, sono regolate dal Sistema Nervoso.

In particolare si ritiene che le emozioni abbiano sede in una specifica area del cervello, chiamata “Sistema Limbico”. Il primo esperto che parlò di tale area cerebrale, dandogli il nome di “grande lobo limbico”, fu Paul Broca; tuttavia studi più approfonditi furono effettuati da Papez (1939), ma soprattutto da MacLean (1949). Il Sistema Limbico, che attualmente è anche noto come “Cervello emotivo”, è costituito da svariate e interconnesse strutture cerebrali che insieme coordinano i compiti di percepire, prendere consapevolezza, controllare ed esprimere le emozioni. Tra questi sono importanti: l’Ippocampo, che è la sede della memoria emotiva perché permette di ricordare le informazioni sensitive-sensoriali relative agli eventi vissuti; l’amigdala, nota per la sua forma a mandorla, che è il principale centro in cui vengono gestite le emozioni e dove ha origine la paura; l’Ipotalamo, i cui corpi mammilari ricevono impulsi dall’amigdala e dall’Ippocampo e le trasferiscono al Talamo; la Fornice, una fascia di fibre nervose che connette l’ippocampo con le altre regioni encefaliche, trasmettendo le informazioni emotive; e la corteccia limbica. Vista la connessione tra queste zone cerebrali è difficile stabilire con precisione il lavoro specifico effettuato da ognuna di esse: vi è quindi una cooperazione che permette di eseguire l’importante funzione della regolazione emotiva.

Ma le emozioni sono anche connesse con un’altra importante parte del sistema Nervoso: il Sistema Nervoso Autonomo, così definito perché riguarda tutte quelle reazioni fisiologiche (quali l’accelerazione del battito cardiaco, la sudorazione, la contrazione muscolare, l’attività gastrointestinale e così via) che si svolgono “autonomamente”, cioè indipendentemente dalla propria volontà. È facile notare che, quando una persona prova una determinata emozione, a livello fisiologico vengono innescati delle reazioni su cui non si ha alcun controllo: chi ha paura, ad esempio può presentare un improvviso aumento della sudorazione, tremore muscolare e accelerazione del battito cardiaco.

Come mostrato da alcuni delle informazioni citate in questo articolo, che rappresentano solo una parte di ciò che si è scoperto su questo argomento, negli ultimi anni la neuroscienze ha fatto molti passi in avanti nello studio e nella comprensione delle emozioni; tuttavia alcuni meccanismi non sono ancora ben chiari, e restano misteri che aspettano di essere svelati.

Emilia Biviano

Sitografia:

https://lamenteemeravigliosa.it/

https://www.stateofmind.it/

Foto di Sara Sperindei

Ernest Hemingway: una vita borderline

Un’esistenza avventurosa quella di Ernest Hemingway, vissuta a pieno tra le sue più grandi passioni quali lo sport, la vita all’aria aperta, il pugilato, la corrida, il safari, la pesca e la caccia solo per citarne alcune.

Ancora oggi, l’autore, viene considerato uno dei più grandi narratori del Novecento, con il tema della “lotta tra il bene ed il male” che contraddistingue i suoi racconti.

La sua vita però non fu sempre in discesa, infatti fu caratterizzata da profondi avvenimenti drammatici, tra i quali l’incidente del 1918, durante la prima guerra mondiale, quando venne assegnato dalla Croce Rossa come autista volontario e durante il quale rimase gravemente ferito alla gamba. Fu proprio da questa esperienza, che l’autore prese coscienza di sé, aumentò in lui un senso di importanza, grazie anche ai riconoscimenti ricevuti, dalla croce di guerra americana alla medaglia d’argento italiana. È proprio sul fronte italiano, che il giovane Hemingway diventò un uomo, conoscendo l’avventura e la gloria, l’amore e la morte.

Anche il suicidio del padre, avvenuto nel 1928, segnò profondamente la sua esistenza, convincendolo sempre di più ad affrontare la vita come una costante sfida con se stesso, in un mondo privo di significato. Sin da ragazzo, i rapporti con il padre furono burrascosi, fino al punto di allontanarsi dal lui, evento che gli lasciò l’eterno dubbio di essere in qualche modo responsabile della sua morte.

Nel 1954, durante un safari in Africa con la moglie, rimase coinvolto in un incidente aereo. Durante il volo, le tracce del piccolo velivolo scomparvero e solo in un secondo momento vennero ritrovati i resti in mezzo agli alberi nella giungla dell’Uganda ma senza superstiti. L’incidete non lasciava speranze e in tutto il mondo iniziò a diffondersi la notizia della sua tragica morte; perfino l’autore stesso lesse sui notiziari vari necrologi sul suo decesso. Fortunatamente, il giorno dopo la notizia fu smentita, apprendendo che Hemingway, la moglie ed il pilota furono sopravvissuti, riparati in un villaggio nelle vicinanze. Dopo qualche giorno, durante un altro spostamento aereo, ci fu un secondo incidente, l’abitacolo prese fuoco. Anche questa volta i coniugi si salvarono miracolosamente. L’autore appare sofferente, riportando scottature di primo e secondo grado, lesioni interne al fegato, reni e stomaco.

Da questo momento, salute fisica e mentale furono sempre più precarie e compromesse; nonostante un lento recupero fisico, lo stato psichico non migliorò.

A causa dell’alcol, riscontrò problemi al fegato e gli venne inoltre diagnosticata l’emocromatosi, una malattia metabolica genetica dovuta all’accumulo di rilevanti quantità di ferro in vari tessuti ed organi.

Infine, gli venne accertata un’encefalopatia cronica traumatica (CTE), nota anche come sindrome da demenza pugilistica, una condizione patologica indotta dall’accumularsi nel tempo di ripetute commozioni cerebrali. Venne sottoposto a 24 elettroshock, i quali gli provocarono grosse lacune mnesiche. Lui stesso dichiarò che queste terapie gli rubarono il suo capitale, la memoria.

Nel 1953, vinse il premio Pulitzer grazie al romanzo “The old man and the sea” (Il vecchio e il mare, 1952), storia di un uomo che si confronta con la natura, nel quale emerge la lotta tra l’essere umano e le forze naturali. L’anno successivo ottenne il premio Nobel per la letteratura, per il suo stile contemporaneo ma che non riuscì a ritirare personalmente a causa del suo grave stato di salute.

Dopo vari ricoveri, nel 1961, quando le sue condizioni fisiche non gli permisero nemmeno più di scrivere, trovandosi costretto a convivere con continue emicranie, decise di farla finita, suicidandosi con un colpo in fronte del suo fucile da caccia preferito.

Un tragico epilogo per una vita vissuta senza tregua, domata dall’istinto delle passioni.

L’uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto ma non può essere sconfitto.”

(Ernest Hemingway)

Dott.ssa Sara Sperindei

Perché abbiamo paura del “diverso”?

La paura del diverso è quell’insieme di emozioni negative e sfavorevoli innescate quando ci si trova davanti a persone con caratteristiche differenti rispetto alle proprie, come il colore della pelle, il credo religioso o l’orientamento sessuale.

Nonostante vi è la tendenza a credere che il disprezzo per il diverso sia solo dovuto da cattiveria e poca umanità, tali atteggiamenti hanno anche a che fare con il modo in cui funziona la mente umana, che cerca sempre di difendersi dal mondo esterno e di definirsi.

Un meccanismo cognitivo spontaneo su cui si radica la discriminazione del diverso è la categorizzazione, cioè quel processo cognitivo che elabora le informazioni provenienti dall’ambiente, permettendo di suddividere oggetti, eventi e persone in categorie mentali. Se tale processo da un lato è fondamentale, perché sentirsi parte di un gruppo permette di conoscere bene sé stessi, costruire la propria identità e ridurre l’incertezza, dall’altro comporta relazioni conflittuali o di discriminazione verso gruppi differenti, i quali vengono visti come pericolosi o da evitare.

La categorizzazione sociale è il processo che sta alla base della formazione del pregiudizio, cioè un tipo di atteggiamento sfavorevole e ostile verso un gruppo sociale e i suoi membri, dominato dall’abbondante uso di stereotipi. Tali pregiudizi possono allora innescare una serie di atteggiamenti di discriminazione, attacco e odio verso il cosiddetto “diverso”, che si evincono da modi di dire, barzellette, slogan ma anche da semplici atteggiamenti, messi in atto il più delle volte in maniera inconsapevole. Ad esempio, spesso, è facile accorgersi come, quando per strada si incontra una persona di colore, si tende a cambiare percorso, a stringere a se la borsa, quasi a difenderla da eventuali furti, o a rivolgersi ad essi in maniera ostile. La psicologia sociale elenca una serie di meccanismi che sono conseguenza dei pregiudizi. Tra questi sono descritti la profezia che si auto-avvera e la minaccia dello stereotipo. La prima si verifica qualora supposizioni su una persona influenzano l’interazione con lei, cambiandone il comportamento, il quale risulterà così allineato alle nostre aspettative. Ad esempio, in seguito al pregiudizio secondo cui un migrante è ostile e aggressivo, ci si può rivolgere nei suoi confronti in maniera poco garbata, spingendolo a sua volta a rispondere duramente e confermando le aspettative iniziali. Con la minaccia dello stereotipo, invece, gli individui stigmatizzati sono consapevoli che gli altri possono giudicarli e trattarli in maniera stereotipata e inavvertitamente possono rafforzare col proprio comportamento quegli stessi stereotipi.

Oltre ad avere a che fare con la categorizzazione mentale, che è uno dei processi che stanno alla base del nostro funzionamento cognitivo, la paura del diverso è anche una modalità difensiva.

Infatti vari studi hanno dimostrato che quando ci si trova davanti un individuo diverso da se, a livello psicologico vengono attivati dei meccanismi simili a quelli che si verificano a livello biologico in seguito all’incontro di agenti estranei, ritenuti dannosi alla salute: il sistema immunitario protegge il corpo da eventuali alterazioni patogene. Analogamente avere davanti ad una persona considerata diversa, come uno straniero, implica l’attivazione di una certa quantità di ansia, derivante dalla minaccia che qualcosa di esterno e differente da sé possa mutare l’equilibrio interno e la propria identità sociale. Questo meccanismo può dar vita a due tipi di reazione: una condizione di “eccessiva uguaglianza”, ovvero la consapevolezza che lo straniero è assolutamente identico a sé o, appunto la paura di ciò che è ignoto e sconosciuto, percepito come pericoloso. Pur trattandosi di due situazioni antitetiche, la conseguenza è la stessa: il radicarsi di un’assoluta omogeneità o di un eccessiva diversità causa l’irrigidimento delle due parti, che non considerano la possibilità di mettere in atto cambiamenti positivi attraverso l’incontro tra differenze.

Tuttavia il dato di fatto per cui i nostri meccanismi mentali ci portano ad avere timore della diversità e ad evitarla, non deve essere una giustificazione alla discriminazione e al disprezzo nei confronti di ciò che non conosciamo. Al contrario, essere consapevoli di essi ci permette di contenere determinati meccanismi e di avere una flessibilità tale, attraverso cui riconoscere le situazioni in cui la diversità non è un qualcosa di dannoso di cui aver paura, ma è invece un “mondo nuovo” da scoprire, a cui è possibile avvicinarsi con curiosità, confronto ed interesse.

Emilia Biviano

Bibliografia

MICHEAL A. HOGG, GRAHAM M. VANGHA (2012); Psicologia sociale: teorie e applicazioni; Pearson, Milano.

Ghiliardi A. (2009), Noi e loro. L’integrazione psicologica nell’immigrazione, Internatiolal Journal of psychoanalysis and education.

 

Genitorialità: è utile dare regole senza spiegarle?

La Genitorialità è l’insieme dei compiti che permette al genitore di fornire degli strumenti di orientamento, attraverso cui il minore avrà la capacità di affrontare autonomamente le situazioni della vita, compiere delle scelte ed essere “Sé stesso”.

Secondo Erikson diventare genitori significa passare da una condizione di “oggetto di cura” a “caregiver”. Rutter definisce  la Genitorialità come un compito che richiede sensibilità ai bisogni del figlio, comunicazione sociale, espressività emotiva e controllo. La responsabilità dei genitori consiste quindi sia nel trasmettere vicinanza, affetto e speranza, ma anche nel comunicare il senso della giustizia e della legge. Tutto ciò con l’obiettivo di far maturare il minore dal punto di vista fisico, sociale, emotivo, affettivo e comportamentale.

Ovviamente non si tratta di un compito facile, tanto che lo stesso Freud l’ha considerato come uno dei mestieri più impossibili, insieme all’insegnante, il governatore e lo psicanalista. Il genitore si trova infatti a dover affrontare varie difficoltà, come quella di riuscire a “dosare” i propri atteggiamenti, per non essere troppo presente, rigido ed intrusivo, ma neanche troppo assente, distante e poco curante delle regole.

Nonostante trovare il giusto equilibrio tra il “troppo” e il “troppo poco” appaia molto difficile, la Psicologia ha ben presenti quali siano le funzioni genitoriali, e conoscerle può aiutare il genitore ad accompagnare i figli nella crescita.

Tra queste funzioni, una di quelle su cui spesso si ha difficoltà è la funzione regolativa, cioè a capacità di fornire al bambino delle regole, le quali rappresentano uno strumento attraverso cui imparare a mettere in pratica le sue capacità preesistenti di autoregolazione emotiva (regolazione dei propri stati interni) e di relazione interattiva (la relazione con gli altri). Anche in questo caso però, le regole non devono essere eccessivamente rigide, né troppo permissive e devono essere imposte al momento giusto.

Nonostante l’importanza di tale funzione, che infatti favorisce l’abilità di mentalizzazione, essa da sola non basta, ma deve essere accompagnata da un’altra importante funzione: quella normativa. Si tratta della capacità spiegare al figlio il perché è necessario seguire determinate regole e non altre, in modo che egli possa capirne il senso e interiorizzarle come parte di sé. Ciò permetterà al bambino di avere dei punti di riferimento e di crescere in un mondo ordinato in cui poter convivere e relazionarsi con gli altri con rispetto e umanità.

Di conseguenza, se ad esempio si vuole ordinare al bambino di non tirare calci o non insultare i compagni, un semplice “non si fa” tende a far percepire tale regola come un dogma imposto da un noioso adulto; mentre avrebbe un altro effetto dire “tu cosa proveresti se lui lo facesse a te?”. Spiegare al bambino che anche gli altri hanno i suoi stessi bisogni ed emozioni, aiutarlo a mettersi nei panni altrui, permetterà lui di interiorizzare queste regole come parte di sé, rispettare e amare il resto del mondo.

Con questo articolo non si vuole sminuire la complessità della Genitorialità, ne privare quest’ultima della sua soggettività, poiché la relazione tra genitore e figlio, così come qualsiasi altra forma di relazione, è unica e irripetibile. Si vuole invece stimolare i genitori a riflettere e rassicurarli sul fatto che esistono delle “regole alla Genitorialità” approvate scientificamente: spetterà poi a loro il duro compito di applicarle sul proprio figlio, unico tra tanti.

 

Emilia Biviano

Sitografia e Bibliografia

http://www.genitorialita.it/documenti/le-funzioni-della-genitorialita/
www.isfo.it/files/File/2012/Giglio12.pdf
Ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna (2009), Buone pratiche per la valutazione della genitorialità: raccomandazione per gli psicologi. Pendragon, Bologna.

Ragno Violino : l’ansia del mostro nascosto

Mai come quest’anno sembra essere insorta una forte preoccupazione rispetto al ragno violino: recenti sono state le segnalazioni di morsi a Roma, Parma e in questi giorni anche a Pesaro.

Il morso inizialmente indolore, porta a gonfiore e arrossamento, eritemi e nei casi più gravi a indolenzimento e insensibilità con necrosi della pelle nel punto colpito, fino ai casi estremi (dipendenti anche dal punto in cui si è morsi) di aritmie e morte. Già dai primi casi, si è posta subito una grande attenzione per questo insetto che da sempre popola l’area mediterranea.

Ma chi è davvero questo mostro? Gli entomologi lo descrivono come un ragno “timido”, tendente più alla fuga che all’attacco. Nonostante ciò sono bastati una decina di casi riportati sui giornali a generare panico e a far entrare questo ragno nelle fantasie di molti italiani.

Ciò appare molto interessante ai nostri occhi, in quanto da questi allarmismi possono scaturire paure più generiche e intense, come l’aracnofobia, ovvero la paura irrazionale dei ragni. Quest’ultima è da sempre molto diffusa e ciò ha, in parte, un importante significato evolutivo, in quanto ha favorito la sopravvivenza della nostra specie. L’aracnofobia però, cosi come molte fobie, non è solo dettata da meccanismi di condizionamento diretto, ma come ha evidenziato già negli anni ‘70 Bandura, anche da una trasmissione sociale delle paure. Essa quindi, può essere appresa tramite osservazione e trasmissione di informazioni ed istruzioni. Anche in questo caso, le notizie giornalistiche vengono per lo più riportate con titoli e termini sensazionalistici e spaventanti, perché si sa, le notizie negative suscitano emozioni più forti che catturano la nostra attenzione, portandoci però a non vedere l’intero. Per cui poco importa se il ragno tende a mordere solo se si sente minacciato e sia poco frequente, perché nella nostra mente rimane impressa solo la possibilità di un pericolo. Allo stesso modo, la propensione del ragno a stare nascosto, viene percepita come una minaccia ancora più ansiogena, in quanto aumenta il grado di imprevedibilità, con la possibilità che possa sbucare da un momento all’altro da un lenzuolo, da una scarpa o persino dalla biancheria.

Con questo non si invita a prendere sotto gamba il reale malessere che il morso del ragno violino può causare, ma solo a non trasformare un piccolo insetto, nel “mostro che si nasconde sotto il letto”, alimentando paure altrettanto invalidanti.

 

Dott.ssa Carolina Lazzari

La non preparazione dei laureati in Psicologia: se non fosse colpa dell’Università

I primi giorni di un Tirocinante rappresentano a volte un fastidioso trauma, o esame di realtà..non so, non ricordo, e soprattutto “all’Università non l’abbiamo fatto”, queste le frasi costrette a pronunciare a Tutor sbrigativi.

E se non fosse colpa dell’Università? Se a 25 anni, un Laureato che viene identificato dalla società come non in grado di compiere alcun ruolo, né professionale, né lavorativo, e sostanzialmente che non è a volte in grado di usare una fotocopiatrice correttamente.

E se non fosse colpa dell’Università, chi può essere la causa di questa lunga agonia, verso un lontano traguardo, che passa tra le altre cose attraverso ben 4 prove di un controverso Esame di Stato? In che modo potersi preparare in tempi minori e più efficaci oltre che produttivi?

Nuove leggi suggeriscono nuove strade per i Laureati in Psicologia, ci sarà spazio per nuove professionalità?

Una cosa è certa: la preparazione non è un’opinione e la non preparazione non può essere più giustificabile.