Il mobbing

Il mobbing è caratterizzato da una serie di comportamenti violenti, che possono includere abusi psicologici, emarginazione ed umiliazioni messi in atto da uno o più individui nei confronti di un altro individuo e che si prolungano nel tempo. Tali comportamenti durano nel tempo e sono lesivi della dignità personale e professionale della vittima e anche della sua salute psicofisica ma non sempre raggiungono la soglia di reato né sono di per sé illegittimi ma producono una serie di danneggiamenti che hanno conseguenze sul patrimonio della vittima, sulla sua salute e su tutta la sua vita.

Il termine mobbing è stato coniato agli inizi degli anni settanta dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie con l’obiettivo di escludere un membro dello stesso gruppo.

Per potersi parlare di mobbing, il comportamento persecutorio deve portare all’espulsione della vittima dal luogo di lavoro, causandogli una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.

Uno dei principali modelli per spiegare tale fenomeno è quello di Leymann (1996) che ipotizza che il mobbing non è un comportamento stabile ma un processo che si evolve attraverso quattro stadi:

–  prima fase: il conflitto quotidiano. Vi è  un conflitto latente che influisce negativamente sulle relazioni tra i dipendenti e Leymann sostiene che la non risoluzione di tale conflitto o la sua non adeguata gestione portano all’insorgere del mobbing;

– seconda fase: la maturazione del conflitto. In questa fase il conflitto si evolve e diventa continuativo, tutti gli sforzi sono tesi al danneggiamento della vittima attraverso  attacchi costanti e ripetuti nel tempo;

–  terza fase: errori o abusi anche non legali dell’amministrazione del personale. In questa fase ormai la situazione di mobbing è diventata di pubblico dominio e la vittima inizia ad accusare sintomi di malessere fisico ed i vertici aziendali vengono a conoscenza del problema;

– quarta fase: esclusione dal mondo del lavoro. Il mobbing raggiunge il suo scopo, la vittima viene esclusa dall’ambiente lavorativo attraverso il licenziamento, le dimissioni, la liquidazione, il prepensionamento, spesso la vittima si licenzia di sua volontà perché non sopporta più di essere maltrattata. I casi più gravi di mobbing si concludono con il suicidio della vittima.

Il rapporto tra mobber e mobbizzato da luogo a tre diverse tipologie, o direzioni, del fenomeno.

Si parla di mobbing dall’alto, o verticale discendente, nella situazione in cui il mobber si trova in una posizione gerarchica superiore rispetto alla vittima. Spesso l’attività di mobbing è condotta da un superiore al fine di costringere alle dimissioni un dipendente  perché antipatico, poco competente o poco produttivo. In tal caso, le attività di mobbing possono estendersi anche ai colleghi (i side mobber), che preferiscono assecondare il superiore, o quantomeno non prendere le difese della vittima, per non entrare in conflitto con il capo, nella speranza di fare carriera, o semplicemente per “quieto vivere”.

Nel mobbing tra pari, mobber e vittima sono allo stesso livello gerarchico, spesso è messo in atto da parte dei colleghi verso un lavoratore non integrato nell’organizzazione lavorativa per motivi d’incompatibilità ambientale o caratteriale (ad esempio per i diversi interessi sportivi, per motivi etnici o religiosi oppure perché diversamente abile). Spesso i motivi che lo scatenano sono la forte competizione o concorrenza tra il personale dello stesso reparto o semplicemente invidia o desiderio di apparire migliori agli occhi dei superiori (Ege,1996).

Nel mobbing dal basso, o verticale ascendente, il mobber si trova in una posizione gerarchica inferiore rispetto alla vittima e  generalmente le cause che lo scatenano non sono tanto le incompatibilità all’interno dell’ambiente di lavoro quanto una reazione da parte di una maggioranza del gruppo allo stress dell’ambiente e delle attività lavorative: la vittima viene dunque utilizzata come “capro espiatorio” su cui far ricadere la colpa della disorganizzazione, delle inefficienze e dei fallimenti.

Il mobbing strategico si ha quando si mettono in atto condotte mobbizzanti verso un lavoratore con lo scopo di espellerlo dall’attività lavorativa e far subentrare un’altra persona.

Il bossing è un termine che indica azioni compiute dalla direzione o dall’amministrazione del personale e che assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale, volta alla riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure alla semplice eliminazione di una persona indesiderata e viene attuato con il preciso scopo di indurre il dipendente alle dimissioni. Può attuarsi in modalità differenti ma con lo scopo comune di creare un clima di tensione intollerabile (Ege,2000).

Il mobbing non è una malattia ma di certo può essere la causa scatenante di varie malattie: la patologia psichiatrica più frequentemente associata è il disturbo dell’adattamento, caratterizzata da una sintomatologia ansioso-depressiva reattiva all’evento stressogeno. Fra le conseguenze rientrano la perdita d’autostima, depressione, insonnia, isolamento. I sintomi fisici includono cefalea, annebbiamenti della vista, tremore, tachicardia, sudorazione fredda, gastrite, dermatosi. Le conseguenze maggiori sono disturbi della socialità, quindi, nevrosi, depressione, isolamento sociale e suicidio, in un numero non trascurabile di casi.

Uno degli strumenti più diffusi per la misurazione del mobbing è stato ideato da Leymann alla fine degli anni ’80, il Leymann Inventory of Psychological Terrorization(LIPT), che comprende la catalogazione di 45 azioni mobbizzanti suddivise in cinque categorie:

–  attacchi alla possibilità di comunicare con colleghi e con il management costringendo il dipendente a prendere le informazioni dalle voci di corridoio che spesso sono erronee;

–  attacchi alle relazioni sociali, in cui l’esclusione è anche fisica, la vittima viene trasferita in luoghi isolati, negandole contatti e rapporti sociali;

– attacchi all’immagine sociale, alla vittima vengono impartiti ordini poco chiari allo scopo di fargli commettere errori;

– attacchi alla qualità della situazione professionale, attraverso sottomansionamento o demansionamento;

ü  attacchi alla salute, affidando alla vittima compiti pericolosi per il benessere psico-fisico.

Ad oggi non esiste ancora una legge specifica sul mobbing ma vi sono delle norme civilistiche che permettono di difendersi da questi comportamenti persecutori.

Occorre distinguere le ipotesi in cui l’autore del mobbing sia il datore di lavoro o un collega della vittima. Nel primo caso, l’ 2087 del Codice Civile obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore e per essere risarcito il lavoratore dovrà provare la condotta illegittima messa in atto dal superiore mentre quest’ultimo potrà dimostrare di aver operato secondo le disposizioni di legge. Nel secondo caso, invece, l’articolo 2043 del Codice Civile obbliga il mobber a rispondere per responsabilità extracontrattuale che ricorre nel caso in cui una persona provoca un danno ingiusto ad un’altra.

Quando invece gli vengono assegnate mansioni diverse rispetto all’incarico per il quale è stato assunto o mansioni inferiori o che lo lasciano inattivo, il lavoratore, ai sensi dell’art.2013 del Codice Civile, può chiedere al giudice del lavoro di accertare il fatto illecito e chiedere di essere reintegrato nelle mansioni precedentemente svolte o comunque equivalenti.

L’INAL considera il mobbing una malattia professionale quindi il lavoratore può chiedere il risarcimento del danno anche a questo Ente.