Una delle più attuali e pericolose forme di dipendenza è quella che riguarda un’attività che è parte integrante della vita di ogni persona: la dipendenza da lavoro.
Il termine workaholic (ubriaco di lavoro) è stato coniato da Oates nel 1971 ed indica una persona “il cui comportamento è compulsivo nei confronti del lavoro nello stesso modo in cui quello dell’alcolista lo è nei confronti dell’alcol” (Robinson,1998).
Sebbene in Italia sia pressoché sconosciuta, in altri paesi è ormai diventato un problema sociale. Si pensi ad esempio al Giappone, paese in cui gli studi sull’argomento sono iniziati nel lontano 1967 dopo la morte di un operaio per lo stress accumulato a causa delle eccessive ore di lavoro. Tale fenomeno prende il nome di “karoshi”, che in giapponese significa “morte per eccesso di lavoro” ed è diffusissimo nella società giapponese e causa di morti per attacchi cardiaci e ischemici dovuti al forte stress, alle troppe ore di lavoro e alle condizioni di lavoro dannose.
Robinson (1998) si riferisce alla dipendenza da lavoro definendola the well-dressed addiction (la dipendenza ben vestita) perché costituisce un fenomeno pervasivo, ma non riconosciuto dalla società. Secondo l’autore si tratta di “un disturbo ossessivo-compulsivo che si presenta mediante richieste autoimposte, un’esagerata dedizione al lavoro fino all’esclusione delle altre attività della vita. La dipendenza da lavoro è un’esperienza caratterizzata dal bisogno di essere ripetuta con modalità compulsive e presenta i fenomeni del craving, dell’assuefazione e dell’astinenza” (Caretti, La Barbera, 2005).Il lavoro diventa “uno stato d’animo, una via di fuga che libera il soggetto dall’esperire emozioni, responsabilità, intimità nei confronti degli altri” (Lavanco & Milio, 2006).
Ci si è interrogati sul dove sia il confine tra il lavoro eccessivo e il workaholism e quali comportamenti contraddistinguono i primi tipi di soggetti dai secondi? Robinson (1998) distingue tra dipendenza e “lavorare sodo” e le principali differenze sono elencate nella seguente tabella:
WORKAHOLICS |
HARDWORKER |
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Dunque il dipendente da lavoro è una persona completamente assorbita dalla professione, vede nel lavoro l’unica fonte di piacere e di gratificazione, mentre l’hardworker è in grado di porre delle barriere e dei limiti e considera il lavoro come piacevole e necessario ma non esclude dalla sua vita altri interessi e altre attività.
Il dipendente da lavoro si presenta come una persona che “per colmare il senso di incompletezza si immerge nel lavoro ed esso diviene un rifugio che lo protegge dal provare emozioni e il mezzo attraverso cui definisce e costruisce una positiva immagine di sé. “(Lavanco & Milio,2006).
La definizione più diffusa e accettata è quella di Spence e Robbins (1992) per cui il workaholic è una persona “estremamente dedita al lavoro, si sente costretta o spinta da pressioni interne a lavorare ed è poco appagata da esso”. Dunque, in base al loro modello, le tre caratteristiche del workaholism sono:
– elevato interesse per il lavoro;
– elevata motivazione;
– scarso piacere nel lavorare.
Il comportamento workaholic risulta fortemente associato allo stress, allo stato di salute e ad altre condizioni psicologiche, quali le ossessioni, le compulsioni e l’ipomania (Spence, Robbins,1992).
Rispetto alla professioni dei workaholics è molto diffusa l’idea che siano soprattutto alti dirigenti, manager e uomini d’affari ma in realtà non è così, ci sono anche casalinghe workaholics, disoccupati workaholics e persino bambini workaholic, in cui la dipendenza si manifesta nel bisogno di eccellere a scuola, nelle attività extracurriculari, nello sport (Fassell,1990).
Robinson (1998) definisce la dipendenza da lavoro come un “disturbo ossessivo-compulsivo che si manifesta attraverso richieste auto-imposte, incapacità di regolare le abitudini lavorative ed eccessiva indulgenza nel lavoro con l’esclusione delle altre attività della vita”. Secondo Snir e Zohar (2000) il workaholism è la “quantità di tempo stabile e significativa che una persona impiega in un’ attività e pensieri legati al lavoro, pur non richiedendolo necessità esterne”. Il workaholic è spesso visto in una luce favorevole, spesso è una persona con una buona situazione economica, che non ha difficoltà ad ammettere quanto gli piaccia il suo lavoro e i ritmi serrati che sostiene.
Tutta questa dedizione al lavoro sottrae tempo alla famiglia e agli amici e le relazioni sono superficiali (Hochschild,1998). Piuttosto che un attività, il lavoro diventa “uno stato d’animo, una via di fuga che libera la persona dal provare emozioni, dall’avere responsabilità, intimità nei confronti degli altri. Ci si rifugia totalmente nel lavoro e questo a lungo andare diventerà un fattore di pericolo per la salute, compromette la felicità, le relazioni interpersonali e l’intero funzionamento” (Oates, 1971).
Robinson sostiene che la dipendenza da lavoro si origini da un intreccio di fattori individuali e fattori ambientali: oltre alla predisposizione “genetica” a lavorare eccessivamente, tale dipendenza è fortemente influenzata da vari fattori esterni quali l’educazione, i modelli culturali imposti dalla società e la famiglia, in cui spesso, come sostiene Killinger(1991), sono presenti altre forme di dipendenza (spesso da droghe e alcol), divorzi o separazioni in cui il figlio è messo al centro del conflitto tra i coniugi, genitori che hanno disturbi psichici. Jones e Wells (1996) parlano di “adultizzazione” (pareantification) intendendo il processo per cui un bambino, per far fronte a situazioni di disagio familiare, salta le normali tappe evolutive e diventa un piccolo adulto dal punto di vista emotivo e mentale, assume il ruolo di caretaker di fratelli, genitori fisicamente o psichicamente disabili, alcolizzati o emotivamente dipendenti. L’adultizzazione del bambino può prendere due direzioni: nella prima, egli annulla completamente se stesso per prendersi cura degli altri mentre nella seconda asseconda i desideri dei genitori e diventa il figlio sognato. Entrambe queste due condizioni conducono al workaholism, dove il Sé viene sacrificato a favore di un’altra persona o di un compito. Per Robinson(1998),le famiglie in cui si sviluppa una dipendenza da lavoro rientrano fondamentalmente in due categorie: la “famiglia perfetta”, caratterizzata da regole e confini rigidi e da uno stile di vita iper-organizzato dove viene trasmesso il messaggio che bisogna fingere che tutto vada bene anche quando non è così e non bisogna parlare dei proprio sentimenti né mostrare agli altri come si è dentro , e la “famiglia imperfetta”, disorganizzata, senza regole, che genera nei suoi membri un senso di instabilità e insicurezza.
Secondo Guerreschi gli indicatori della work addiction sono i seguenti (Guerreschi, 2009):
– compulsione lavorativa: la persona ha bisogno di lavorare per moltissime ore (a volte si superano anche le 12 ore lavorative), anche nei giorni festivi o in vacanza;
– i suoi pensieri sono costantemente rivolti al trovare strategie per la risoluzione dei problemi quotidiani che si presentano sul lavoro e al trovare strategie per raggiungere i successi professionali desiderati;
– quando la persona non lavora, ad esempio durante le festività, possono presentarsi fenomeni quali crisi di astinenza, sensazione di vuoto, angoscia o irritazione;
– molto raramente si assenta dal lavoro, neanche per malattia;
– di dedica solo al suo lavoro e trascura tutti gli altri aspetti della vita quotidiana;
– costante preoccupazione di perdere il lavoro;
Sempre secondo Guerreschi (2009), la dipendenza da lavoro è caratterizzata da :
– accentuata compulsione lavorativa, con crisi di lavoro notturno o ininterrotto per giorni;
– spesso i workaholic sono cresciuti in famiglie in cui mancava la comunicazione e in cui vigevano atteggiamenti autoritari, in cui spesso si assisteva a situazioni di separazioni e divorzi;
– isolamento sociale;
– relazioni problematiche con colleghi, superiori o dipendenti;
– sindrome da stress lavorativo che può degenerare in disturbi psicologici e fisici più gravi (quali depressione, ansia, alcoolismo, disturbi cardiaci);
– burnout o sindrome dell’esaurimento emotivo;
– polidipendenza che può essere caratterizzata dall’uso di farmaci stimolanti, eccessive dosi di caffè per ridurre le ore di sonno per lavorare di più o ancora dall’uso di alcool o altre sostanze anche illegali.
Garson (1990) individua tre stadi attraverso cui la dipendenza da lavoro procede e che vanno dall’ infanzia all’età adulta:
– primo stadio: l’origine della dipendenza è da ricercarsi nella presenza in famiglia di un genitore alcolizzato o workaholic o di troppe ed eccessive regole che impediscono l’espressione libera dei sentimenti;
– secondo stadio: copre la prima età adulta, la dipendenza da lavoro può diventare acuta se al soggetto manca l’approvazione e l’apprezzamento da parte del suo ambiente di lavoro, mentre gli avanzamenti di carriera e i riconoscimenti la alimentano;
– terzo stadio: coincide con la seconda età adulta, la dipendenza da lavoro tende ad aggravarsi con la crisi di mezza età, i disagi fisici e relazionali diventano veri e propri problemi, e se essa non si risolve o si arresta può diventare cronica e deteriorare le relazioni.
In sintesi si può affermare che il workaholism è “una vera e propria forma di dipendenza sia per gli effetti fisici e psicologici che comporta sia per l’esistenza di una sostanza (l’adrenalina) e di un processo (lavorare esageratamente) da cui si diventa dipendenti. Le cause sono da rintracciare nei bisogni insoddisfatti o rimossi, nell’impulso profondo che porta la persona a dover raggiungere un certo standard per essere accettata. Per colmare il senso di incompletezza la persona si immerge nel lavoro, che diviene il rifugio che protegge dall’esperire emozioni e il mezzo per definire se stessi e costruire una positiva immagine di sé. Il workaholic soffre di un disturbo compulsivo che lo porta a mascherare una serie di stati emotivi e a un’incapacità di adattamento che si manifesta con sentimenti di scarsa stima di sé, paura di perdere il controllo e difficoltà relazionali “(Robinson, 1998).
Secondo Fassel lo sviluppo della patologia segue tre fasi (Fassel, 1990; Guerreschi, 2005):
– fase iniziale (uso – piacere – abuso). Per cercare di migliorare il proprio stile di vita, l’individuo inizia a lavorare di nascosto, trascorre il tempo libero leggendo cose che riguardano il lavoro, lavora anche nel tempo libero. Questo suo modo di dedicarsi completamente al lavoro lo porta a trascurare i familiari e tutti gli altri aspetti della vita, iniziano ad affiorare i sensi di colpa a cui si cerca di far fronte con alcune scusanti del tipo che lavora molto perché in tal modo la famiglia può avere tutto ed essere felice; lentamente iniziano ad affiorare disturbi fisici, quali mal di testa, mal di stomaco e disturbi cardiaci, e psichici, quali disturbi di concentrazione e depressione lieve, che il workaholic cerca di ignorare immergendosi nel lavoro;
– fase critica (abuso – comportamento evasivo – assuefazione). Il soggetto si immerge sempre di più nel lavoro e si sente inutile se non è impegnato nella sua professione, si allontana dalle relazioni affettive e dalla vita sociale, incomincia a esaurire le forze fisiche, è colpito da vuoti di memoria e disturbi del sonno. Inizia ad inventare scuse per giustificare il suo eccessivo lavorare ed a volte manifesta aggressività e impazienza nei confronti dei colleghi. L’essere ammirati e compatiti dagli altri per il molto lavoro rafforza l’autostima e riduce i sensi di colpa. Il quadro clinico può peggiorare fino all’instaurarsi di problemi di salute seri e cronici;
– fase cronica (assuefazione – dipendenza). Il soggetto lavora anche nei giorni festivi e durante la notte, atteggiamenti sempre più aggressivi verso coloro che non condividono uno stile lavorativo analogo. Possono manifestarsi malattie organiche e disturbi psichici gravi.
Sprankle ed Ebel in The workaholic syndrome(1987) riportano le riflessioni di un manager che, alla fine, non aveva persino più cognizione di ciò che era successo, e a poco a poco prendeva atto della stanchezza e della tensione accumulata. Questa sensazione è familiare a molti workaholic che confessano il bisogno di dormire almeno di notte. Tuttavia l’ansia e la stanchezza cronica sono spesso mascherate dall’iperattività o dall’impazienza.
Trai sintomi che segnalano la dipendenza, e di cui il workaholic è consapevole, Killinger (1991) individua sintomi ossessivi e compulsivi, paure persistenti, senso di colpa e stanchezza cronica. I workaholic manifestano dei particolari comportamenti ansiosi quali tamburellare le dita sul tavolo, tic, contrazioni della bocca, frequenti sospiri e tosse nervosa. Alcuni manierismi diventano cronici e possono causare sofferenze fisiche. Per contrastare l’ansia, molti workaholics si dedicano compulsivamente alla pulizia e all’ordine o ad altri a rituali superstiziosi. Addirittura alcuni workaholics, arrivati in anticipo, lavorano persino in attesa del colloquio con il terapeuta.
Tra le paure che sottendono ad ogni ossessione, Killinger (1991) afferma che c’è indubbiamente la paura del fallimento, che ha le sue origini in dinamiche familiari disfunzionali in cui l’approvazione dei genitori era condizionata dalla performance. La vita del workaholic è orientata alla perfezione e all’evitamento di ogni tipo di insuccesso ma nonostante ciò diverse situazioni professionali e interpersonali espongono al rischio di un fallimento. Quando la dipendenza progredisce, sebbene il workaholic lotta duramente per ottenere performance eccellenti, la sua capacità di prendere decisioni man mano si esaurisce e lascia il posto all’ansia e all’insicurezza, provocando in tal modo un calo del rendimento lavorativo. Per evitare il confronto con la sua parte più intima e con quello che succede nell’ambiente che lo circonda, il workaholic viene preso dalla sindrome della “ruota del criceto”(Killinger, 1991): una volta all’interno della ruota il workaholic non può più scendere, anzi deva andare sempre più veloce. Questo processo si fonda su un bisogno, simile a quello dell’alcolista, di fornirsi una maggiore stimolazione per attutire l’ansia. Impegnarsi per raggiungere un obiettivo da un senso di realizzazione, qualsiasi riposo forzato (una malattia, una vacanza o la pensione), dal momento che gli nega la dose necessaria dell’oggetto della sua dipendenza, turba il workaholic e lo rende irritabile e distaccato.
Per il workaholic è molto importante che gli altri pensino che lui sia una persona capace e competente ed è costantemente preoccupato che i suoi errori diventino visibili e quindi che posso venir fuori la parte insicura di sé. Ciò determina un bisogno sempre crescente di controllo e si impegna costantemente nel far si che nessuno si accorga delle sue debolezze.
Chi ha una dipendenza spesso costruisce un’immagine di sé conforme all’idea che ne hanno gli altri e neanche il workaholic fa eccezione; giudica il proprio successo dalle percezioni degli altri e questo riferimento esterno lo rende molto vulnerabile, soprattutto quando perde la fiducia in sé stesso. Questa dipendenza dalle opinioni altrui, unita all’insicurezza e alla sospettosità spingono il workaholic ad allontanarsi dagli altri e ad offendere chi cerca di stare loro vicini.
Secondo Killinger (1991),il workaholic sperimenta due tipi di sensi di colpa: “uno è adattivo e serve a segnalare che il comportamento si sta allontanando da ciò che è moralmente corretto, l’altro è distruttivo e si presenta come un senso di collera diretto internamente a punire se stesso, o proiettato all’esterno sotto forma di comportamento crudele e vendicativo, a punire gli altri”. I workaholics sono in preda a terribili sensi di colpa e col progredire della loro dipendenza, il loro comportamento diventa sempre più sgradevole: da un lato la rabbia, la vendetta e il sarcasmo danneggiano gli altri, dall’altro i sentimenti di frustrazione, vergogna e fallimento affliggono il workaholic.
3.2.2 Tipologie di workaholics
La struttura di personalità del workaholic appare rigida, perfezionista ed è caratterizzata da una difficoltà di regolazione della gestione del tempo e del lavoro stesso e un basso livello di autostima, ha bisogno di prove che dimostrano che il suo lavoro è eccellente ed il suo valore personale deriva dalla somma delle cose che fa (il workaholic è colui che risponde cosa fa quando gli chiedono come sta); si concentra perlopiù sui risultati che bisognerebbe raggiungere affinché tutti, lui compreso, possano avere chiari i suoi meriti (Porter, 1996).
Il workaholic non può permettersi il minimo errore ed attribuisce un’estrema importanza ai feedback dati dagli altri.
“Il dipendente da lavoro giudica severamente ogni suo minimo errore. I feedback positivi da parte degli altri che ne riconoscono i meriti, entrano in conflitto con la percezione che ha di sé, cosicché devono essere adattati al suo sistema di credenze. Pertanto, ciascuna situazione che confuta il convincimento circa la propria inadeguatezza viene trascurata o disconfermata e non entra a fare parte dell’esperienza personale. I giudizi positivi vengono cioè riorganizzati in un pensiero negativo” (Killinger, 1991). Tale dipendenza è motivata da una profonda insicurezza per le proprie qualità in ambiti non lavorativi e dal sentirsi inadeguati di fronte alle aspettative degli altri. “La condotta compulsiva sembra motivata da una profonda insicurezza del Sé circa le proprie qualità in ambiti differenti dal lavoro, dal sentirsi inadeguati di fronte alle aspettative altrui. Il lavoro funziona, pertanto, come un rifugio in cui potere esercitare il controllo della situazione sentendosi efficienti” (Guerreschi, 2009).
L’elemento della vita che generalmente si altera più precocemente, a causa della dipendenza da lavoro, è il contesto familiare. Il workaholic” tende a comportarsi in modo autoritario in famiglia e percepisce il coniuge come un estraneo, un accessorio; ne consegue un serio deterioramento della sfera affettiva che induce aridità, apatia, cinismo e indifferenza tra i coniugi. Il lavoro ha un effetto anestetizzante sia sulla sfera emotiva che lo rende distaccato e insensibile, sia sull’attività sessuale che si riduce o si annulla” (Doerfler & Kammer, 1986; Robinson, 1999). La famiglia non riesce a dare il giusto sostegno al workaholic e spesso i membri si sentono trascurati ed abbandonati e accusano il workaholic il quale a sua volta percepisce queste critiche come segni di rifiuto e ingratitudine. “Mentre il coniuge ha la possibilità di separarsi o divorziare, i figli sono costretti a vivere fino alla maggiore età la situazione logorante di un genitore workaholic. Danneggiati da questo, vengono definiti co-dipendenti e si possono verificare differenti situazioni: a) il figlio non si accorge del disturbo del genitore e lo vive come normalità; b) il figlio se ne accorge sin dall’infanzia e adotta i più svariati comportamenti adattativi. In questo caso la presenza del workaholic costringe il figlio a un riadattamento dinamico in termini di tempo, di restringimento dell’investimento socio-relazionale, di spesa economica e soprattutto d’investimento di energia mentale, con una generale maggior presa di responsabilità da parte di questo. Egli adotta un progressivo congelamento dei sentimenti per garantirsi la sopravvivenza nel medio-lungo termine”(Burke, 2006).
Nell’ambito lavorativo vengono riproposti tutti gli elementi che caratterizzano lo stile cognitivo del workaholic quali il pensiero rigido, l’orientamento esterno, l’insensibilità verso gli altri, la mancanza di empatia, il comportamento ossessivo.
Questo particolare stile cognitivo compromette la possibilità di instaurare una relazione intima. Il bisogno di controllarsi e di controllare gli altri lo induce a mantenere una posizione dominante all’interno delle relazioni, perdendo la capacità di essere aperto agli altri (Lavanco & Milio, 2006).
Gli studiosi concordano sul fatto che non esiste un unico profilo del dipendente da lavoro ma ci sono diversi tipi. Oates (1971) ha individuato cinque tipi di workaholics: “incallito”, “convertito”, “occasionale”, lo “pseudo-workaholic” e l’ ”escapista”. L’ ”incallito”è una persona precisa e perfezionista che prende molto sul serio il lavoro ed è soggetto a forte rischio di stress, molto abile nel suo lavoro ma intollerante verso l’incompetenza di alcuni colleghi. Il “convertito” è un valido professionista, si impegna nelle regolari ore lavorative e richiede le giuste ricompense per gli straordinari. L’ “occasionale” si impegna molto e lavora troppo con il fine di far fronte alle difficoltà economiche. Lo “pseudo-workaholic” differisce dall’incallito perché quest’ultimo è orientato al raggiungimento di un prodotto mentre l’altro è motivato dal bisogno di potere. L’”escapista” è un individuo che lavora molto per rimandare il ritorno alla vita familiare che piò essere problematica, il lavoro è per lui uno strumento di fuga.
Killinger (1991), pur ritenendo che tutti i workaholics abbiano delle caratteristiche comuni, ne ha differenziato tre tipi. Il workaholic “controllore” apparentemente è una persona colta ed ambiziosa, impulsiva, impaziente, dorme poco e non riesce a rilassarsi, deve essere sempre occupata a fare qualcosa; spesso è un libero professionista o ricopre posizioni di grande prestigio nelle aziende. Si tratta di individui brillanti, simpatici apparentemente socievoli ma in realtà hanno pochi amici intimi. Dietro questa maschera apparentemente impeccabile si cela una grande insicurezza ed una forte ansia che li porta a diventare irascibili e a sottomettere le persone. Utilizzano principalmente meccanismi di difesa quali il diniego, la razionalizzazione e l’evitamento. Il secondo tipo è il workaholic “controllore narcisista” che ha varie cose in comune con il tipo precedente e presenta tratti narcisistici: non ha sviluppato la capacità di amare incondizionatamente e tende a manipolare gli altri per raggiungere i propri fini, è testardo orgoglioso e spesso ricorre alla dissociazione quando lo stress aumenta. Il terzo tipo è il workaholic “compiacente”, cioè workaholics meno ambiziosi, più socievoli e fortemente consapevoli degli altri e dei loro bisogni, amano stare tra la gente, ma possono diventare eccessivamente dipendenti, spesso scelgono impieghi di media dirigenza, dal momento che per loro l’apprezzamento dei superiori e la stima degli altri è fondamentale (Lavanco &Milio,2006).
Robinson (1998) ha classificato i workaholics in quattro tipi: “instancabile”, “con deficit di attenzione”, “bulimico” e “assaporatore”; inoltre ne ha individuato un altro, il careholic, che li attraversa, cioè può presentarsi in combinazione con uno degli altri tipi. L’ “instancabile” è quello che più si rispecchia nell’immagine del workaholic “classico”: lavora compulsivamente e costantemente, senza andare in vacanza né trascorrendo il suo tempo in attività di svago o riposandosi, prende il lavoro molto seriamente e si impegna in più attività contemporaneamente, è perfezionista e scrupoloso e si pone standard praticamente irraggiungibili, il lavoro è per lui più importante delle relazioni interpersonali. Il “bulimico” ha molte caratteristiche in comune con le persone che soffrono di questo disturbo dell’alimentazione: ha uno stile lavorativo in cui lunghi periodi di astinenza si alternano a una intensa ed eccessiva, egli può non lavorare per molto tempo rinviando ogni impegno il più possibile finchè, costretto e preso dal panico, si dà da fare senza sosta per portarlo a termine. Il workaholic con “deficit di attenzione” cerca continuamente stimoli nuovi perché spesso si annoia. Spesso ha un deficit di attenzione e difficoltà a concentrarsi sul lavoro e spesso trascura il lavoro che sta facendo per passare ad un altro. Questo tipo di workaholic è caratterizzato da un’alta propensione a iniziare le attività e da una bassa capacità di portarle a termine.
Il quarto tipo, l’ “assaporatore”, si contraddistingue per il modo di fare lento, metodico e riflessivo. Trovano difficoltà a lavorare in gruppo perché sono eccessivamente lenti e perfezionisti, non concludono un lavoro senza essere sicuri di averlo realizzato alla perfezione fin nei minimi dettagli. Il quinto profilo, il careholic, può presentarsi con uno dei tipi precedentemente descritti. Il careholism è la “dipendenza da lavoro camuffata da nobili intenzioni”. Questo tipo di workaholic si trova soprattutto nell’ambito delle helping professions ed è una persona che ha bisogno di aiutare gli altri ed andare incontro ai malati, tende a prendersi cura di tutti tranne che di se stesso, esponendosi al rischio di stress e burnout (Lavanco & Milio,2006)
Spence e Robbins a partire da una chiara definizione di workaholism hanno provato a sviluppare misure empiriche corredate da informazioni psicometriche. Il workaholic è per loro “una persona estremamente dedita al lavoro ma che mostra scarso piacere in esso e si sente spinta a lavorare da una pressione interna”. La “dedizione al lavoro”, la “sensazione di essere costretti a lavorare” e il “piacere nel lavorare” sono le tre caratteristiche del workaholism secondo le due autrici. Dalle risposte agli item della batteria sono emersi diversi profili che le autrici hanno identificato come workaholics “appassionati di lavoro”, workaholics “entusiasti”, “lavoratori disimpegnati”, “lavoratori rilassati” e “lavoratori disincantati”. Di questi sei tipi, i primi tre riflettono un comportamento workaholic.
Il workaholic vero e proprio è quello che ha punteggi elevati sia rispetto alla compulsione a lavorare sia rispetto alla dedizione al lavoro, mentre risulta poco appagato da esso; l’ “appassionato del lavoro” presenta un punteggio sopra la media nella dedizione al lavoro, trascorre molto tempo a lavorare o a pensare al lavoro; il workaholic “entusiasta” presenta punteggi elevati in tutte le tre componenti. Dalle ricerche si evince che i workaholic ottengono i valori più alti in altre tre scale che misurano il perfezionismo, lo stress legato al lavoro e all’incapacità di delega delle responsabilità, oltre che in quella relativa alla presenza di problemi di salute.
Scott et al. (1997) hanno identificato tre elementi nello stile comportamentale dei workaholic da cui derivano tra tipologie di workaholics: “impiegare il tempo libero in attività lavorative”, “lavorare al di là delle richieste organizzative” e “pensare al lavoro anche quando si fa altro”.
I tre tipi di workaholic sono: il “compulsivo dipendente”, sa di lavorare troppo ma non tiesce a ridurre le ore di lavoro, quando non lavora è triste e depresso e sviluppa alti livelli di stress e problemi di salute; il “perfezionista”, ha bisogno di controllare tutto e ciò lo porta ad essere rigido e ricercare sul lavoro posizioni di potere, alto rischio di stress, problemi fisici e psicologici e difficoltà interpersonali, assenteismo; workaholic “orientato al successo”, è un lavoratore che può mostrare un pattern comportamentale di “tipo A”, che include competitività, senso di pressante necessità e un forte desiderio di successo e, a differenza degli altri workaholics, non è ossessionato dal lavoro, non sperimenta l’ansia e lo stress che accompagnano altri tipi di workaholics.
3.2.3 Lo stile cognitivo del workaholic
Robinson (1998) individua alcune forme di pensiero rigido che caratterizzano lo stile cognitivo del workaholic. Il “pensiero perfezionista” esprime il bisogno di perfezione del workaholic, che origina dal senso di inferiorità e lo spinge a volere più di quanto può ottenere, portandolo a sperimentare sentimenti di inadeguatezza, sconfitta e frustrazione.
Il “pensiero telescopico” porta invece il workaholic a focalizzarsi su alcuni aspetti del lavoro piuttosto che su altri e invece di valorizzare ed essere orgoglioso per i successi, rileva costantemente gli errori, pensiero questo che sembra essere originato dalle critiche dei genitori che portano ad un vissuto di vergogna e che successivamente lo costringono a a vedersi come inferiore perché si confronta continuamente con standard eccellenti.
Il “pensiero compiacente” si esprime attraverso la tendenza a trascurare se stesso e diventando accondiscendente e accontentando gli altri, convinto che le opinioni che gli altri si fanno su di lui siano più importanti rispetto alla concezione che ha di sé stesso.
Il “pensiero pessimistico”: non tengono conto degli aspetti positivi della vita e si concentrano solamente su quelli negativi e ciò li porta a credere che tutto sia negativo e che qualcosa di brutto presto o tardi accada.
Il “pensiero vittimistico”: il workaholic crede di essere vittima di forze esterne, quali un capo severo ed esigente, la crisi economica, le richieste e i bisogni della famiglia, che lo spingono a lavorare eccessivamente.
Il “pensiero difensivo” porta il workaholic a considerare la vita come una battaglia, per vivere bisogna lottare contro una serie di forze che lo sfidano e non c’è tempo per sé o per rilassarsi, ogni minuto perso può impedire il raggiungimento della perfezione a cui tende.
Il “pensiero esternalizzato”: il suo valore è sancito dagli altri e definisce se stesso in base ai risultati e agli obiettivi che raggiunge.
3.2.4 Il workaholic nel contesto lavorativo
La presenza nel contesto lavorativo di un workaholic crea non pochi disagi e problemi ai colleghi e a tutta l’organizzazione aziendale anche perché non sono gli eccellenti lavoratori che molti immaginano (Garfield,1987) perché non sono orientati al raggiungimento dell’obiettivo aziendale ma sono dipendenti proprio dal processo del lavorare, apparentemente sono grandi lavoratori, che si dedicano totalmente alla professione, ma in realtà la ragione per cui lo fanno non è vera “vocazione” ma solo tenersi impegnati, per sfuggire alle responsabilità familiari e personali. Robinson e Porter sostengono che il wokaholic non lavora bene in gruppo per vari motivi:
– ha bisogno di controllare tutto e questo rende difficoltoso il lavoro in team;
– lavorare in gruppo richiede la condivisione di obiettivi comuni e il lavorare insieme per raggiungere tali obiettivi e questo è fonte di frustrazione per il workaholic (Fassell,1990);
– il workaholic preferisce lavorare da solo e tende ad isolarsi, elemento che contrasta con lo spirito di gruppo;
– l’eccessivo perfezionismo ed i ritmi spesso serrati fanno sì che il workaholic lavori meglio da solo o con altri workaholics (Klaft, Kleiner,1988);
– il workaholic è riluttante a delegare i compiti o a condividere gli obiettivi con altri(Gee,2000).
Per il suo comportamento diligente e responsabile, per l’impegno e la dedizione al lavoro, molto spesso il workaholic viene ricompensato con la promozione e assume posizioni dirigenziali, tendendo a mettere sotto pressione gli impiegati perché raggiungano i risultati desiderati, rispettino gli orari e i ritmi lavorativi (Robinson,1998). Tendono ad eccedere nelle critiche verso gli altri e non tollerano gli errori e ciò provoca nei dipendenti reazioni di ansia, paura e insicurezza. Inoltre l’umore del workaholic spesso oscilla tra il distaccato e l’irritabile, fa promesse che poi non mantiene, modifica i programmi e di conseguenza il clima ambientale è imprevedibile e incoerente e ciò crea difficoltà nello svolgimento del lavoro.
La differenza fondamentale tra un qualsiasi lavoratore e un workaholic risiede nel fatto che il lavoratore può anche imporsi standard elevati ma lavorare per molte ore ma non vittimizza gli altri, ama il proprio lavoro ed è “orientato al successo”, mentre il workaholic crede che nessun altro lavori come lui, non tiene conto del lavoro degli altri e non rispetta le esigenze altrui (Porter, 2001). Dunque la presenza di workaholic non è un fattore positivo per l’organizzazione perché più la dipendenza progredisce più le funzioni cognitive del workaholic peggiorano, l’efficienza e la produttività diminuiscono ed emergono disturbi correlati allo stress e al burnout (Maslach, 1986; Fassel, 1990; Robinson,1998; Porter, 2001) e problemi psicologici quali ansia e depressione.
3.2.5 Strumenti di misura della work addiction
Gran parte delle conoscenze che si hanno sulla dipendenza da lavoro deriva da resoconti di storie e casi clinici ma per studiare meglio il fenomeno, comprenderlo a fondo e pianificare interventi efficaci alcuni autori hanno avviato delle ricerche empiriche che potessero integrare le conoscenze ottenute dallo studio dei singoli casi.
Robinson (1989) ha messo a punto uno strumento di misurazione del workaholism che tiene conto anche del contesto in cui il workaholic vive: il Work Addiction Risk Test (WART). Si tratta di uno strumento di misura composto da 25 item i principali comportamenti di “tipo A” messi in atto nella vita quotidiana (mangiare, parlare e muoversi velocemente) e specifici del contesto lavorativo (“mi ritrovo spesso a lavorare dopo che i miei colleghi hanno finito”). Tale strumento sembra avere una buona attendibilità. Gli studi di Robinson sono stati effettuati su studenti e membri del Workaholic Anonymus mentre ricerche successive hanno validato il WART su campioni eterogenei. In uno studio del 2002 Robinson e Flowers hanno indagato le dimensioni sottostanti alla WART, che sono le seguenti:
– tendenze compulsive;
– controllo;
– comunicazione disfunzionale/arroganza;
– incapacità di delegare;
– autostima.
Un altro strumento meno utilizzato del precedente ma comunque importante è la Schedule For Nonadaptive Personality Workaholism (SNAP- WORK), messa a punto da Clarke nel 1993 e si basa sull’ipotesi che ci sia una corrispondenza tra workaholism e disturbo ossessivo- compulsivo di personalità. E’ composta da 18 item a risposta chiusa (vero/falso), presenta una elevata consistenza interna e una buona attendibilità.
Lo strumento più utilizzato dai ricercatori è senza dubbio il Workaholism Battery (WORK-BAT). Spence e Robbins nel 1992 costruirono questo strumento composto da 23 item con un formato di risposta su una scala a 5 punti e formato da tre scale:
– scala drive: D, indagala motivazione. E’ composta da 7 item, quali, ad esempio, “Ho la sensazione che qualcosa dentro di me mi spinga a lavorare duramente”;
– scala work enjoyment: E, indaga il piacere nel lavorare. E’ composta da 9 item quali, ad esempio, “Il mio lavoro è così interessante e piacevole che non sembra un lavoro”;
– scala work involvment: I, indaga la dedizione al lavoro. E’ composta da 7 item quali, ad esempio, “Mi annoio e mi irrito durante le vacanze, quando non ho niente di produttivo da fare”).
Successivamente Spence e Robbins hanno aggiunto altre 5 scale:
ü coinvolgimento nel lavoro: 7 item quali, ad esempio, “Sono profondamente assorto nel mio lavoro”;
– tempo dedicato al lavoro: 7 item quali, ad esempio, “Dedico molto più tempo al lavoro che alle persone;
– stress legato al lavoro: 9 item quali, ad esempio, “A volte mi sembra che il mio lavoro stia per travolgermi”;
– perfezionismo: 8 item quali, ad esempio, “ Non posso mettere da parte un lavoro se non sono sicuro che sia stato realizzato alla perfezione”;
– difficoltà a delegare: 7 item quali, ad esempio, “ Sono convinto che se uno vuole che una cosa sia fatta bene, bisogna che la faccia da sé”.
Questo strumento mostra buone caratteristiche psicometriche quali validità di contenuto e validità esterna ma esiste disaccordo sulla sua struttura interna. Ciò ha spinto McMillan (2000) a migliorare lo strumento trasformandolo in uno strumento a due scale (scala D e scala E) composto da 14 item e che attualmente è sottoposto ad analisi psicometriche anche se sembra che abbia una buona consistenza, attendibilità, validità convergente e utilità scientifica.
3.2.6 Le principali ricerche sul fenomeno
Di seguito una rassegna delle principali e più recenti ricerche sul tema della dipendenza da lavoro.
Un primo filone di ricerca riguarda i fattori implicati nella dipendenza da lavoro. Snir e Harpaz (2003; 2004), partendo dalla definizione di workaholism data da Snir e Zohar secondo cui è la quantità di tempo stabile e significativa che una persona impiega nel lavoro , pur non richiedendolo necessità esterne, misurano la dipendenza da lavoro in termini di tempo trascorso al lavoro e considerano i bisogni economici che lo determinano. Questi autori hanno messo in relazione il workaholism con alcune variabili attitudinali (indici di significato attribuiti al lavoro: centralità del lavoro, orientamento economico, relazioni interpersonali), demografiche (genere, stato civile) e situazionali (professione, settore di impiego) in due campioni rappresentativi della forza lavoro israeliana. E’ emerso che le variabili significativamente legate al workaholism e quindi considerate possibili predittori della dipendenza da lavoro sono state: la centralità riservata al lavoro nella vita del soggetto, la motivazione economica, il tipo di professione (manager e liberi professionisti), il settore di impiego (privato) e il genere (maschile). E’ emerso anche che il numero di ore lavorative settimanali è uno dei principali fattori della dipendenza da lavoro a cui sono correlati positivamente un elevato grado di soddisfazione professionale, lo svolgere una libera professione, il fatto di essere laico mentre vi è una correlazione negativa per quanto riguarda la centralità riservata alla famiglia.
Mudrack (2004) ha fatto riferimento alla definizione di workaholism di Naughton che considera questo fenomeno come il risultato di una combinazione tra elevato interesse per il lavoro e una struttura di personalità ossessivo-compulsiva e si è posto l’obiettivo di esplorare tale ipotesi. Mudrack parte dal presupposto che l’elevato coinvolgimento nel lavoro sia associato ad alti livelli di ostinazione, ordine, rigidità e ciò porterebbe alla tendenza a lavorare più del necessario. I risultati hanno confermato la relazione tra questo tipo di personalità e la dipendenza da lavoro.
Un secondo filone di ricerca riguarda il genere, anche se la relazione tra questi due costrutti è ancora una questione aperta, dalle ricerche non emergono differenze significative tra uomini e donne nello sviluppare questo tipo di dipendenza (Spence, Robbins, 1992; Burke 1999, Porter,2001). Spence e Robbins(1992) hanno messo a confronto professionisti donne e uomini che ricoprivano posizioni accademiche, mentre Burke(1999) ha condotto una ricerca su un campione di manager e professionisti ed entrambe le ricerche sono giunte al risultato che non ci sono differenze di genere rispetto alla dedizione al lavoro, al perfezionismo e alla difficoltà a delegare. Nello studio condotto da Spence e Robbins è emerso che le donne sono più spinte a lavorare ma sono anche più soddisfatte e coinvolte nel loro lavoro rispetto agli uomini, dedicano anche più tempo alla professione e presentano un più alto grado ci stress correlato al lavoro e più problemi di salute.
Nell’ambito di indagine che ha avuto come oggetto la famiglia, Robinson e Kelley (1997) hanno esaminato l’influenza della dipendenza da lavoro su soggetti adulti cresciuti in una famiglia workaholic. I genitori sono stati classificati come workaholics e non workaholics sulla base dei punteggi che i figli hanno dato sulla scala WART mentre i figli sono stati valutati in base alle dimensioni di ansia, depressione, locus of control e immagine di sé. Sono state confermate le osservazioni cliniche secondo le quali i figli dei workaholics tendono a compiacere i genitori ed è emerso che coloro che avevano riconosciuto i propri genitori come workaholics soffrivano di ansia e depressione, mancavano di fiducia in sé stessi e presentavano un locus of control esterno.
O’ Driscoll et al.(2004) ritengono che una persona debba avere un equilibrio ed essere ugualmente coinvolta e soddisfatta dal suo ruolo professionale e familiare ed indicano come variabili a sostegno di questo rapporto i colleghi e la famiglia: se il sostegno che questi danno è insufficiente ne deriverà un insoddisfazione sul piano professionale e familiare. Propongono un modello in base al quale il sostegno da parte dei colleghi ha un effetto diretto sulla soddisfazione professionale mentre il sostegno della famiglia ha un effetto diretto sulla soddisfazione nel contesto familiare. Questi autori hanno condotto una ricerca su un vasto campione di impiegati di 23 organizzazioni neozelandesi operanti in diversi settori ed è emerso che esiste realmente un rapporto diretto tra il sostegno dei colleghi e dei familiari sulla soddisfazione personale e familiare e rapporti equilibrati tra lavoro e famiglia agiscono positivamente sulla soddisfazione professionale e familiare e permettono di ridurre l’assenteismo e lo stress lavorativo.
Sempre O’Driscoll in collaborazione con McMillan (2004) ha indagato la percezioni dei workaholics rispetto al proprio stato di salute partendo dalla credenza secondo la quale i workaholics non si prendono cura si sé e tendono a negare la stanchezza finché non sono costretti a chiedere aiuto per i loro problemi fisici ma le differenze tra gruppo di workaholic e gruppo di controllo si sono rivelate non statisticamente significative.
Hodson (2004) ha indagato quali categorie di individui mostrano un maggiore attaccamento al lavoro ed è giunto alla conclusione che i lavoratori che occupano posizioni più elevate, che traggono dal lavoro ricompense materiali e sociali maggiori intrattengono migliori relazioni sociali nell’ambiente professionale, sono più motivati a lavorare e più inclini al workaholism rispetto a coloro che occupano posizioni più basse.
Altre ricerche si sono poste l’obiettivo di valutare gli strumenti di misura della work addiction. Taris et al. (2005) hanno sviluppato e validato la versione tedesca della WART e successivamente hanno indagato se la sottoscala delle tendenze compulsive (CT) della WART potrebbe essere usata come misura di workaholism ed infine si sono interessati agli effetti del workaholism sull’esaurimento del soggetto e sui conflitti tra lavoro e altre attività. E’ emerso che la versione tedesca della WART è molto simile a quella americana e che la sottoscala delle tendenze compulsive può essere considerata una valida misura della dipendenza da lavoro. Un’altra ricerca (Ersoy- Kart, 2005) si è occupata di valutare l’attendibilità e la validità della versione turca della WORK-BAT.
3.2.7 Prevenzione e ticniche di intervento
Un intervento di prevenzione efficace per contrastare lo sviluppo delle dipendenze è sicuramente la scuola, che dovrebbe avvertire i giovani sui rischi che determinate condotte socialmente accettare, come il lavoro, possono comportare ed estendere tali informazioni anche a livello del gruppo familiare, al fine di dare un quadro generale su cos’è la work addiction, come riconoscere la sintomatologia, sottolineando le conseguenze che può avere nella vita di una persona (Schaef & Fassel, 1989).
Purtroppo ancora oggi questa è una dipendenza poco conosciuta e un fenomeno sociale sottovalutato e spesso viene diagnosticata solo quando è associata ad altre problematiche psichiche o fisiche, uno stato di cose che al momento consente perlopiù una diagnosi in fase avanzata, magari in seguito a infarti o ad altre gravi malattie, per le quali viene prescritto un assoluto riposo lavorativo.
Spesso i primi ad accorgersi della dipendenza non è il workaholic ma i familiari e quindi una diagnosi precoce potrebbe iniziare anche nell’ambito del trattamento dei problemi familiari o di coppia, in cui la dipendenza da lavoro può giocare un ruolo negativo decisivo (Robinson, Flowers & Ng, 2006; Robinson & Post, 1995).
La maggior parte delle persone arriva all’osservazione clinica quando ha già sviluppato da diversi anni il comportamento di abuso con ripercussioni nei diversi ambiti di vita del soggetto.
Attualmente si fa diagnosi work addiction attraverso una serie di strumenti tra cui osservazione, colloquio, raccolta anamnestica, somministrazione del WART o della WORK-BAT o della SNAP-WORK e non c’è un trattamento specifico per il workaholism. Si rende comunque necessario un intervento integrato e multimodale ed è di fondamentale importanza lavorare sulla ristrutturazione cognitiva, sulla costruzione della motivazione al cambiamento, sul recupero delle emozioni e sulla capacità di comunicazione emotiva, sull’autostima, sulla tendenza all’autodistruzione, sulle relazioni affettive, di coppia e familiari.
Il percorso psicoterapeutico dovrebbe includere (Pani & Sagliaschi, 2010):
ü un trattamento farmacologico: un modulatore del tono dell’umore è efficace per gestire la componente compulsiva e l’ossessione nei confronti del lavoro;
ü la psicoterapia cognitivo-comportamentale, la psicoterapia psicodinamica individuale e la psicoterapia di gruppo (ad esempio, lo psicodramma psicoanalitico) centrate in ogni caso sull’aiutare il paziente a sperimentarsi in specifiche abilità comunicative come empatia, sensibilizzazione all’autoanalisi, apertura relazionale; importante l’incentivare la capacità di identificare, riconoscere e poi esprimere le emozioni, mentalizzare e regolare gli affetti usandoli nell’ambito delle relazioni personali in modo adeguato mirando a una maggiore autonomia interiore, e non solo all’apparente indipendenza;
– la terapia familiare e di coppia può essere utile per ricostruire la comunicazione, reintegrare la fiducia tra i soggetti e favorire l’intimità tramite la condivisione emotiva;
– i gruppi di auto-aiuto consentono alla persona di sperimentare il senso di appartenenza, l’importanza di vivere delle relazioni interpersonali, fanno vivere gli altri come interessati ad aiutarla consentendole di instaurare relazioni autentiche.
Workaholics Anonymus è un gruppo di individui che condividono la propria esperienza, le loro forze e le loro aspettative , nel tentativo di risolvere il loro comune problema e di aiutare gli altri membri ad uscire dal circolo vizioso della dipendenza da lavoro e l’unica condizione richiesta per entrare a farvi parte è il desiderio di uscire dalla work addiction.
La nascita dei Workaholics Anonymus si fa risalire al 1983 e fu fondato da un progettista di una società finanziaria di New York e un insegnante, due ex workaholics, e decisero di fondare il gruppo per aiutare chi soffriva di questa dipendenza. Al primo incontro partecipò anche la moglie del progettista ed ebbe inizio anche il Work- Anon, programma rivolto a chi aveva relazioni con un workaholic. Quasi contemporaneamente in altri paesi degli Stati Uniti emersero gruppi simili e nel 1990 i rappresentanti di questi gruppi si riunirono e costituirono ufficialmente il World Service Organization per i Workaholics Anonymus ed adattarono i Dodici Passi(mezzi per intervenire sulla compulsione e per stabilire uno stile di vita più sano e soddisfacente) e le Dodici tradizioni(che riguardano la vita dell’Associazione stessa) dagli Alcolisti Anonimi.
Di seguito l’elenco delle Dodici Tradizioni dei Workaholics Anonymus:
1. Il nostro comune benessere dovrebbe venire in primo luogo; il recupero personale dipende dall’unità di W.A. | |
2. Per il fine del nostro gruppo non esiste che una sola autorità ultima: un Dio d’amore, comunque Egli possa manifestarsi nella coscienza del nostro gruppo. I nostri leader non sono altro che dei servitori di fiducia; essi non governano. | |
3. L’unico requisito per essere membri di W.A. è desiderare di smettere di lavorare compulsivamente. | |
4. Ogni gruppo dovrebbe essere autonomo, tranne che per le questioni riguardanti altri gruppi oppure W.A. nel suo insieme. | |
5. Ogni gruppo non ha che un solo scopo primario: portare il messaggio al workaholic che soffre ancora. | |
6. Un gruppo W.A. non dovrebbe mai avallare, finanziare o prestare il nome di W.A. ad alcuna istituzione similare od organizzazione esterna, per evitare che problemi di denaro, di proprietà e di prestigio possano distrarci dal nostro scopo primario. | |
7. Ogni gruppo W.A. dovrebbe mantenersi completamente da solo, rifiutando contributi esterni. | |
8. W.A. dovrebbe rimanere per sempre non professionale ma i nostri centri di servizio potranno assumere degli impiegati appositi. | |
9. W.A. come tale non dovrebbe mai essere organizzata, ma noi possiamo costituire dei consigli di servizio o comitati, direttamente responsabili verso coloro che essi servono. | |
10. W.A. non ha opinioni su questioni esterne; di conseguenza il nome di W.A. non dovrebbe mai essere coinvolto in pubbliche controversie . | |
11. La politica delle nostre relazioni pubbliche è basata sull’attrazione piuttosto che sulla propaganda; noi abbiamo bisogno di conservare sempre l’anonimato personale a livello di stampa, radio e filmati. | |
12. L’anonimato è la base spirituale di tutte le nostre Tradizioni, che sempre ci ricorda di porre i principi al di sopra delle personalità. | |
I Dodici Passi dei Workaholics Anonymus: |
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1) Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte al lavoro e che le nostre vite erano divenute incontrollabili. | |
2) Siamo giunti a credere che un Potere più grande di noi potrebbe ricondurci alla ragione. | |
3) Abbiamo preso la decisione di affidare le nostre volontà e le nostre vite alla cura di Dio, come noi potemmo concepirLo. | |
4) Abbiamo fatto un inventario morale profondo e senza paura di noi stessi. | |
5) Abbiamo ammesso di fronte a Dio, a noi stessi e a un altro essere umano, l’esatta natura dei nostri torti. | |
6) Eravamo completamente pronti ad accettare che Dio eliminasse tutti questi difetti di carattere. | |
7) Gli abbiamo chiesto con umiltà di eliminare i nostri difetti. | |
8) Abbiamo fatto un elenco di tutte le persone cui abbiamo fatto del male e siamo diventati pronti a rimediare ai danni recati loro. | |
9) Abbiamo fatto direttamente ammenda verso tali persone, laddove possibile, tranne quando, così facendo, avremmo potuto recare danno a loro oppure ad altri. | |
10) Abbiamo continuato a fare il nostro inventario personale e, quando ci siamo trovati in torto, lo abbiamo subito ammesso. | |
11) Abbiamo cercato attraverso la preghiera e la meditazione di migliorare il nostro contatto cosciente con Dio, come noi potemmo concepirLo, pregandoLo solo di farci conoscere la Sua volontà nei nostri riguardi e di darci la forza di eseguirla. | |
12) Avendo ottenuto un risveglio spirituale come risultato di questi Passi, abbiamo cercato di portare questo messaggio ai workaholics e di mettere in pratica questi principi in tutte le nostre attività. |
Attraverso i Dodici Passi il workaholic diventa capace di ristabilire un contatto con se stesso, accettandosi per quello che è e sperimentando un nuovo modo di pensare al lavoro. Inoltre sono sorti degli strumenti di ausilio al metodo dei Dodici Passi, piccoli accorgimenti per vivere bene e liberi dal woraholism e che comprendono azioni quali ascoltare, stabilire le priorità, divertirsi, concentrarsi su una cosa alla volta, passeggiare.
Per Fassell (1990) lo strumento indispensabile per la cura dei workaholics è proprio la partecipazione ai W.A., mentre tutti gli altri strumenti sono buoni ausili. I fattori terapeutici dei gruppo di WA sono:
– la presenza di ex workaholics che sono usciti con successo dalla dipendenza, che possono supportare il workaholic nel programma di lavoro e accompagnarlo nei Dodici Passi e raccontare la propria esperienza;
– gli incontri: si tratta di incontri settimanali in cui vengono condivise esperienze personali attraverso le storie di ogni workaholic;
– setting accogliente, protetto, in cui è garantito l’anonimato;
– elaborazione di programmi di lavoro: guida al lavoro quotidiano che permetta al workaholic di condurre una vita più equilibrata.
Una delle tecniche più utili nell’intervento con il workaholic è l’elaborazione di un “programma di self-care”(Robinson, 1998) personalizzato in base ai suoi bisogni e al suo stile di vita. Si tratta di strategie volte ad introdurre nella vita del workaholic degli spazi dedicati agli hobby, al divertimento, alle relazioni interpersonali e a stabilire orari lavorativi ragionevoli e scadenze realistiche. Prima di stabilire un programma di questo tipo, il terapeuta chiede al paziente di immaginare la sua vita come un cerchio diviso in quattro parti: se stesso, famiglia, divertimento e lavoro e dapprima il workaholic deve segnare la percentuale di tempo che dedica ad ogni area, “percentuale attuale”, e poi quella che vorrebbe dedicare ad esse, “percentuale desiderata”, per poi sottrarle e ottenere il cambiamento necessario per bilanciare le diverse aree ed infine per ognuna di queste aree deve individuare tre o quattro obiettivi per raggiungere lo scopo.
Sempre secondo Robinson (1998) se nel proprio lavoro ci si trova di fronte a un dirigente workaholic bisogna mettere in atto dei comportamenti che, a lungo termine, daranno i loro frutti e tra questi troviamo il bisogno di stabilire dei confini ragionevoli al proprio lavoro, mantenendo un proprio equilibrio, anche mediante l’ausilio di esercizi di aereobica, di riduzione dello stress e di meditazione, evitare di arrabbiarsi e diventare intolleranti, programmare un incontro di chiarificazione delle reciproche apettative, incoraggiando la formazione di un gruppo di sostegno tra colleghi che condividono gli stessi problemi (Fassel,1990; Robinson, 1998).
Burkwell e Chen (2002) sostengono che la Rational Emotive Behavioural Therapy (REBT), tecnica fondata sulla concezione che le emozioni e i comportamenti derivino da processi cognitivi e che modificandoli si possono realizzare modi diversi di sentire e comportarsi, sia il miglior approccio per il trattamento della dipendenza da lavoro. Con tale tecnica si aiuta il workaholic a fronteggiare i propri bias cognitivi, emotivi e comportamentali e si ricostruiscono credenze più sane e ragionevoli e si modificano i comportamenti disfunzionali. Per esempio di fronte ad un’idea del tipo “se il mio capo esprime un giudizio negativo sono sicuro che ho sbagliato lavoro”, una credenza più opportuna sarebbe “spesso ho ricevuto buoni giudizi dal mio capo quindi la possibilità che mi faccia delle critiche sono poche, ma se ciò dovesse accadere, devo ricordare che è solo il giudizio di una persona sul mio lavoro mentre molte altre mi hanno detto che ho un grande talento nel mio campo”. E’ importante aiutare il workaholic a prendere coscienza di come i pensieri negativi danneggiano la salute e l’autostima ed insegnargli ad identificare le emozioni e ad accettare anche quelle negative perché solo sperimentandole pienamente si possono fronteggiare, e ad accettare i propri limiti.
Gli interventi per la cura della dipendenza da lavoro mirano ad una serie di obiettivi tra cui un aumento della capacità di introspezione, favorire l’elaborazione di esperienze passate traumatiche (per fare ciò è importante che il terapeuta rappresenti una base sicura), aiutare il workaholic a costruire un senso di sé stabile, sviluppare capacità di intimità con se stesso e apertura verso gli altri, far acquisire al workaholic competenze comunicative e sociali, fargli comprendere il processo di dipendenza e far crescere il senso di consapevolezza, sviluppare strategie di prevenzione di ricadute, educarlo ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni.
Si tratta di un percorso lungo e ricco di sofferenza ma indispensabile per uscire dal circolo vizioso della dipendenza.