La dipendenza da lavoro

Una delle più attuali e pericolose forme di dipendenza è quella che riguarda un’attività che è  parte integrante della vita di ogni persona: la dipendenza da lavoro.

Il termine workaholic (ubriaco di lavoro) è stato coniato da Oates nel 1971 ed indica una persona “il cui comportamento è compulsivo nei confronti del lavoro nello stesso modo in cui quello dell’alcolista lo è nei confronti dell’alcol” (Robinson,1998).

Sebbene in Italia sia pressoché sconosciuta, in altri paesi è ormai diventato un problema sociale. Si pensi ad esempio al Giappone, paese in cui gli studi sull’argomento sono iniziati nel lontano 1967 dopo la morte di un operaio per lo stress accumulato a causa delle eccessive ore di lavoro. Tale fenomeno prende il nome di “karoshi”, che in giapponese significa “morte per eccesso di lavoro” ed è diffusissimo nella società giapponese e causa di morti per attacchi cardiaci e ischemici dovuti al forte stress, alle troppe ore di lavoro e alle condizioni di lavoro dannose.

Robinson (1998) si riferisce alla dipendenza da lavoro definendola the well-dressed addiction (la dipendenza ben vestita) perché costituisce un fenomeno pervasivo, ma non riconosciuto dalla società. Secondo l’autore si tratta di “un disturbo ossessivo-compulsivo che si presenta mediante richieste autoimposte, un’esagerata dedizione al lavoro fino all’esclusione delle altre attività della vita. La dipendenza da lavoro è un’esperienza caratterizzata dal bisogno di essere ripetuta con modalità compulsive e presenta i fenomeni del craving, dell’assuefazione e dell’astinenza” (Caretti, La Barbera, 2005).Il lavoro diventa “uno stato d’animo, una via di fuga che libera il soggetto dall’esperire emozioni, responsabilità, intimità nei confronti degli altri” (Lavanco & Milio, 2006).

Ci si è interrogati sul dove sia il confine tra il lavoro eccessivo e il workaholism e quali comportamenti contraddistinguono i primi tipi di soggetti dai secondi? Robinson (1998) distingue tra dipendenza e “lavorare sodo” e le principali differenze sono elencate nella seguente tabella:

WORKAHOLICS

HARDWORKER

  • vedono il lavoro come un luogo confortevole rispetto alla vita che non è mai prevedibile e come il mezzo per porre le distanze da sentimenti spiacevoli ;

 

  • non pongono un confine tra la vita professionale e quella personale;

 

  • vivono intense esperienze adrenaliniche sapendo di poter ottenere altri lavori
  • vivono il lavoro come necessario ma, al tempo stesso, come un obbligo;

 

  • sanno porre una barriera tra la vita professionale e la vita personale;
  • non vivono tali esperienze come eccitanti.

 

Dunque il dipendente da lavoro è una persona completamente assorbita dalla professione, vede nel lavoro l’unica fonte di piacere e di gratificazione, mentre l’hardworker è in grado di porre delle barriere e dei limiti e considera il lavoro come piacevole e necessario ma non esclude dalla sua vita altri interessi e altre attività.

Il dipendente da lavoro si presenta come una persona che “per colmare il senso di incompletezza si immerge nel lavoro  ed esso diviene un rifugio che lo protegge dal provare emozioni e il mezzo attraverso cui definisce e  costruisce una positiva immagine di sé. “(Lavanco & Milio,2006).

La definizione più diffusa e accettata è quella di Spence e Robbins (1992) per cui il workaholic è una persona “estremamente dedita al lavoro, si sente costretta o spinta da pressioni interne a lavorare ed è poco appagata da esso”. Dunque, in base al loro modello, le tre caratteristiche del workaholism sono:

–  elevato interesse per il lavoro;

–  elevata motivazione;

– scarso piacere nel lavorare.

Il comportamento workaholic risulta fortemente associato allo stress, allo stato di salute e ad altre condizioni psicologiche, quali le ossessioni, le compulsioni e l’ipomania (Spence, Robbins,1992).

Rispetto alla professioni dei workaholics è molto diffusa l’idea che siano soprattutto alti dirigenti, manager e uomini d’affari ma in realtà non è così, ci sono anche casalinghe workaholics, disoccupati workaholics e persino bambini workaholic, in cui la dipendenza si manifesta nel bisogno di eccellere a scuola, nelle attività extracurriculari, nello sport (Fassell,1990).

Robinson (1998) definisce la dipendenza da lavoro come un “disturbo ossessivo-compulsivo che si manifesta attraverso richieste auto-imposte, incapacità di regolare le abitudini lavorative ed eccessiva indulgenza nel lavoro con l’esclusione delle altre attività della vita”. Secondo Snir e Zohar (2000) il workaholism è la “quantità di tempo stabile e significativa che una persona impiega in un’ attività e pensieri legati al lavoro, pur non richiedendolo necessità esterne”. Il workaholic è spesso visto in una luce favorevole, spesso è una persona con una buona situazione economica, che non ha difficoltà ad ammettere quanto gli piaccia il suo lavoro e i ritmi serrati che sostiene.

Tutta questa dedizione al lavoro sottrae tempo alla famiglia e agli amici e le relazioni sono superficiali (Hochschild,1998). Piuttosto che un attività, il lavoro diventa “uno stato d’animo, una via di fuga che libera la persona dal provare emozioni, dall’avere responsabilità, intimità nei confronti degli altri. Ci si rifugia totalmente nel lavoro e questo a lungo andare diventerà un fattore di pericolo per la salute, compromette la felicità, le relazioni interpersonali e l’intero funzionamento” (Oates, 1971).

Robinson sostiene che la dipendenza da lavoro si origini da un intreccio di fattori individuali e fattori ambientali: oltre alla predisposizione “genetica” a lavorare eccessivamente, tale dipendenza è fortemente influenzata da vari fattori esterni quali l’educazione, i modelli culturali imposti dalla società e la famiglia, in cui spesso, come sostiene Killinger(1991), sono presenti altre forme di dipendenza (spesso da droghe e alcol), divorzi o separazioni in cui il figlio è messo al centro del conflitto tra i coniugi, genitori che hanno disturbi psichici. Jones e Wells (1996) parlano di “adultizzazione” (pareantification) intendendo il processo per cui un bambino, per far fronte a situazioni di disagio familiare, salta le normali tappe evolutive e diventa un piccolo adulto dal punto di vista emotivo e mentale, assume il ruolo di caretaker di fratelli, genitori fisicamente o psichicamente disabili, alcolizzati o emotivamente dipendenti. L’adultizzazione del bambino può prendere due direzioni: nella prima, egli annulla completamente se stesso per prendersi cura degli altri mentre nella seconda asseconda i desideri dei genitori e diventa il figlio sognato. Entrambe queste due condizioni conducono al workaholism, dove il Sé viene sacrificato a favore di un’altra persona o di un compito. Per Robinson(1998),le famiglie in cui si sviluppa una dipendenza da lavoro rientrano fondamentalmente in due categorie: la “famiglia perfetta”, caratterizzata da regole e confini rigidi e da uno stile di vita iper-organizzato dove viene trasmesso il messaggio che bisogna fingere che tutto vada bene anche quando non è così e non bisogna parlare dei proprio sentimenti né mostrare agli altri come si è dentro , e la “famiglia imperfetta”, disorganizzata, senza regole, che genera nei suoi membri un senso di instabilità e insicurezza.

Secondo Guerreschi gli indicatori della work addiction sono i seguenti (Guerreschi, 2009):

– compulsione lavorativa: la persona ha bisogno di lavorare per moltissime ore (a volte si superano anche le 12 ore lavorative), anche nei giorni festivi o in vacanza;

–  i suoi pensieri sono costantemente rivolti al trovare strategie per la risoluzione dei problemi quotidiani che si presentano sul lavoro e al trovare strategie per raggiungere i successi professionali desiderati;

–  quando la persona non lavora, ad esempio durante le festività, possono presentarsi fenomeni quali crisi di astinenza, sensazione di vuoto, angoscia o irritazione;

–  molto raramente si assenta dal lavoro, neanche per malattia;

–  di dedica solo al suo lavoro e trascura tutti gli altri aspetti della vita quotidiana;

–  costante preoccupazione di perdere il lavoro;

 

Sempre secondo Guerreschi (2009), la dipendenza da lavoro è caratterizzata da :

–  accentuata compulsione lavorativa, con crisi di lavoro notturno o ininterrotto per giorni;

–  spesso i workaholic sono cresciuti in famiglie in cui mancava la comunicazione e in cui vigevano atteggiamenti autoritari, in cui spesso si assisteva a situazioni di separazioni e divorzi;

–  isolamento sociale;

–   relazioni problematiche  con colleghi, superiori o dipendenti;

– sindrome da stress lavorativo che può degenerare in disturbi psicologici e fisici più gravi (quali depressione, ansia, alcoolismo, disturbi cardiaci);

–  burnout o sindrome dell’esaurimento emotivo;

–  polidipendenza che può essere caratterizzata dall’uso di farmaci stimolanti, eccessive dosi di caffè per ridurre le ore di sonno per lavorare di più o ancora dall’uso di alcool o altre sostanze anche illegali.

Garson (1990) individua tre stadi attraverso cui la dipendenza da lavoro procede e che vanno dall’ infanzia all’età adulta:

–  primo stadio: l’origine della dipendenza è da ricercarsi nella presenza in famiglia di un genitore alcolizzato o workaholic o di troppe ed eccessive regole che impediscono l’espressione libera dei sentimenti;

–  secondo stadio: copre la prima età adulta, la dipendenza da lavoro può diventare acuta se al soggetto manca l’approvazione e l’apprezzamento da parte del suo ambiente di lavoro, mentre gli avanzamenti di carriera e i riconoscimenti la alimentano;

–  terzo stadio: coincide con la seconda età adulta, la dipendenza da lavoro tende ad aggravarsi con la crisi di mezza età, i disagi fisici e relazionali diventano veri e propri problemi, e se essa non si risolve o si arresta può diventare cronica e deteriorare le relazioni.

In sintesi si può affermare che il workaholism è “una vera e propria forma di dipendenza sia per gli effetti fisici e psicologici che comporta sia per l’esistenza di una sostanza (l’adrenalina) e di un processo (lavorare esageratamente) da cui si diventa dipendenti. Le cause sono da rintracciare nei bisogni insoddisfatti o rimossi, nell’impulso profondo che porta la persona a dover raggiungere un certo standard per essere accettata. Per colmare il senso di incompletezza la persona si immerge nel lavoro, che diviene il rifugio che protegge dall’esperire emozioni e il mezzo per definire se stessi e costruire una positiva immagine di sé. Il workaholic soffre di un disturbo compulsivo che lo porta a mascherare una serie di stati emotivi e a un’incapacità di adattamento che si manifesta con sentimenti di scarsa stima di sé, paura di perdere il controllo e difficoltà relazionali “(Robinson, 1998).

Secondo Fassel lo sviluppo della patologia segue tre fasi (Fassel, 1990; Guerreschi, 2005):

– fase iniziale (uso – piacere – abuso). Per cercare di migliorare il proprio stile di vita, l’individuo inizia a lavorare di nascosto, trascorre il tempo libero leggendo cose che riguardano il lavoro, lavora anche nel tempo libero. Questo suo modo di dedicarsi completamente al lavoro lo porta a trascurare i familiari e tutti gli altri aspetti della vita, iniziano ad affiorare i sensi di colpa a cui si cerca di far fronte con alcune scusanti del tipo che lavora molto perché in tal modo la famiglia può avere tutto ed essere felice; lentamente iniziano ad affiorare disturbi fisici, quali mal di testa, mal di stomaco e disturbi cardiaci, e psichici, quali disturbi di concentrazione e depressione lieve, che il workaholic cerca di ignorare immergendosi nel lavoro;

– fase critica (abuso – comportamento evasivo – assuefazione). Il soggetto si immerge sempre di più nel  lavoro e si sente inutile se non è impegnato nella sua professione, si allontana dalle relazioni affettive e dalla vita sociale, incomincia a esaurire le forze fisiche, è colpito da vuoti di memoria e disturbi del sonno. Inizia ad inventare scuse per giustificare il suo eccessivo lavorare ed a volte manifesta aggressività e impazienza nei confronti dei colleghi. L’essere ammirati e compatiti dagli altri per il molto lavoro rafforza l’autostima e riduce i sensi di colpa. Il quadro clinico può peggiorare fino all’instaurarsi di problemi di salute seri e cronici;

– fase cronica (assuefazione – dipendenza). Il soggetto lavora anche nei giorni festivi e durante la notte, atteggiamenti sempre più aggressivi verso coloro che non condividono uno stile lavorativo analogo. Possono manifestarsi malattie organiche e disturbi psichici gravi.

Sprankle ed Ebel in The workaholic syndrome(1987) riportano le riflessioni di un manager che, alla fine, non aveva persino più cognizione di ciò che era successo, e a poco a poco prendeva atto della stanchezza e della tensione accumulata. Questa sensazione è familiare a molti workaholic che confessano il bisogno di dormire almeno di notte. Tuttavia l’ansia e la stanchezza cronica sono spesso mascherate dall’iperattività o dall’impazienza.

Trai sintomi che segnalano la dipendenza, e di cui il workaholic è consapevole, Killinger (1991) individua sintomi ossessivi e compulsivi, paure persistenti, senso di colpa e stanchezza cronica. I workaholic manifestano dei particolari comportamenti ansiosi quali  tamburellare le dita sul tavolo, tic, contrazioni della bocca, frequenti sospiri e tosse nervosa. Alcuni manierismi diventano cronici e possono causare sofferenze fisiche. Per contrastare l’ansia, molti workaholics si dedicano compulsivamente alla pulizia e all’ordine o ad altri a rituali superstiziosi. Addirittura alcuni workaholics, arrivati in anticipo, lavorano persino in attesa del colloquio con il terapeuta.

Tra le paure che sottendono ad ogni ossessione, Killinger (1991)  afferma che c’è indubbiamente la paura del fallimento, che ha le sue origini in dinamiche familiari disfunzionali in cui l’approvazione dei genitori era condizionata dalla performance.  La vita del workaholic è orientata alla perfezione e all’evitamento di ogni tipo di insuccesso ma nonostante ciò diverse situazioni professionali e interpersonali espongono al rischio di un fallimento. Quando la dipendenza progredisce, sebbene il workaholic lotta duramente per ottenere performance eccellenti, la sua capacità di prendere decisioni man mano si esaurisce e lascia il posto all’ansia e all’insicurezza, provocando in tal modo un calo del rendimento lavorativo. Per evitare il confronto con la sua parte più intima e con quello che succede nell’ambiente che lo circonda, il workaholic viene preso dalla sindrome della “ruota del criceto”(Killinger, 1991): una volta all’interno della ruota il workaholic non può più scendere, anzi deva andare sempre più veloce. Questo processo si fonda su un bisogno, simile a quello dell’alcolista, di fornirsi una maggiore stimolazione per attutire l’ansia. Impegnarsi per raggiungere un obiettivo da un senso di realizzazione, qualsiasi riposo forzato (una malattia, una vacanza o la pensione), dal momento che gli nega la dose necessaria dell’oggetto della sua dipendenza, turba il workaholic e lo rende irritabile e distaccato.

Per il workaholic è molto importante che gli altri pensino che lui sia una persona capace e competente ed è costantemente preoccupato che i suoi errori diventino visibili e quindi che posso venir fuori la parte insicura di sé. Ciò determina un bisogno sempre crescente di controllo e si impegna costantemente nel far si che nessuno si accorga delle sue debolezze.

Chi ha una dipendenza spesso costruisce un’immagine di sé conforme all’idea che ne hanno gli altri e neanche il workaholic fa eccezione; giudica il proprio successo dalle percezioni degli altri e questo riferimento esterno lo rende molto vulnerabile, soprattutto quando perde la fiducia in sé stesso. Questa dipendenza dalle opinioni altrui, unita all’insicurezza e alla sospettosità spingono il workaholic ad allontanarsi dagli altri e ad offendere chi cerca di stare loro vicini.

Secondo Killinger (1991),il workaholic sperimenta due tipi di sensi di colpa: “uno è adattivo e serve a segnalare che il comportamento si sta allontanando da ciò che è moralmente corretto, l’altro è distruttivo e si presenta come un senso di collera diretto internamente a punire se stesso, o proiettato all’esterno sotto forma di comportamento crudele e vendicativo, a punire gli altri”. I workaholics sono in preda a terribili sensi di colpa e col progredire della loro dipendenza, il loro comportamento diventa sempre più sgradevole: da un lato la rabbia, la vendetta e il sarcasmo danneggiano gli altri, dall’altro i sentimenti di frustrazione, vergogna e fallimento affliggono il workaholic.

 

3.2.2 Tipologie di workaholics

La struttura di personalità del workaholic appare rigida, perfezionista ed è caratterizzata da una difficoltà di regolazione della gestione del tempo e del lavoro stesso e un basso livello di autostima, ha bisogno di prove che dimostrano che il suo lavoro è eccellente ed il suo valore personale deriva dalla somma delle cose che fa (il workaholic è colui che risponde cosa fa quando gli chiedono come sta); si concentra perlopiù sui risultati che bisognerebbe raggiungere affinché tutti, lui compreso, possano avere chiari i suoi meriti (Porter, 1996).

Il workaholic non può permettersi il minimo errore ed attribuisce un’estrema importanza ai feedback dati dagli altri.

“Il dipendente da lavoro giudica severamente ogni suo minimo errore. I feedback positivi da parte degli altri che ne riconoscono i meriti, entrano in conflitto con la percezione che ha di sé, cosicché devono essere adattati al suo sistema di credenze. Pertanto, ciascuna situazione che confuta il convincimento circa la propria inadeguatezza viene trascurata o disconfermata e non entra a fare parte dell’esperienza personale. I giudizi positivi vengono cioè riorganizzati in un pensiero negativo” (Killinger, 1991). Tale dipendenza è motivata da una profonda insicurezza per le proprie qualità in ambiti non lavorativi e dal sentirsi inadeguati di fronte alle aspettative degli altri. “La condotta compulsiva sembra motivata da una profonda insicurezza del Sé circa le proprie qualità in ambiti differenti dal lavoro, dal sentirsi inadeguati di fronte alle aspettative altrui. Il lavoro funziona, pertanto, come un rifugio in cui potere esercitare il controllo della situazione sentendosi efficienti” (Guerreschi, 2009).

L’elemento della vita che generalmente si altera più precocemente, a causa della dipendenza da lavoro, è il contesto familiare. Il workaholic” tende a comportarsi in modo autoritario in famiglia e percepisce il coniuge come un estraneo, un accessorio; ne consegue un serio deterioramento della sfera affettiva che induce aridità, apatia, cinismo e indifferenza tra i coniugi. Il lavoro ha un effetto anestetizzante sia sulla sfera emotiva che lo rende distaccato e insensibile, sia sull’attività sessuale che si riduce o si annulla” (Doerfler & Kammer, 1986; Robinson, 1999). La famiglia non riesce a dare il giusto sostegno al workaholic e spesso  i membri si sentono trascurati ed abbandonati e accusano il workaholic il quale a sua volta percepisce queste critiche come segni di rifiuto e ingratitudine. “Mentre il coniuge ha la possibilità di separarsi o divorziare, i figli sono costretti a vivere fino alla maggiore età la situazione logorante di un genitore workaholic. Danneggiati da questo, vengono definiti co-dipendenti e si possono verificare differenti situazioni: a) il figlio non si accorge del disturbo del genitore e lo vive come normalità; b) il figlio se ne accorge sin dall’infanzia e adotta i più svariati comportamenti adattativi. In questo caso la presenza del workaholic costringe il figlio a un riadattamento dinamico in termini di tempo, di restringimento dell’investimento socio-relazionale, di spesa economica e soprattutto d’investimento di energia mentale, con una generale maggior presa di responsabilità da parte di questo. Egli adotta un progressivo congelamento dei sentimenti per garantirsi la sopravvivenza nel medio-lungo termine”(Burke, 2006).

Nell’ambito lavorativo vengono riproposti tutti gli elementi che caratterizzano lo stile cognitivo del workaholic quali il pensiero rigido, l’orientamento esterno, l’insensibilità verso gli altri, la mancanza di empatia, il comportamento ossessivo.

Questo particolare stile cognitivo compromette la possibilità di instaurare una relazione intima. Il bisogno di controllarsi e di controllare gli altri lo induce a mantenere una posizione dominante all’interno delle relazioni, perdendo la capacità di essere aperto agli altri (Lavanco & Milio, 2006).

Gli studiosi concordano sul fatto che non esiste un unico profilo del dipendente da lavoro ma ci sono diversi tipi. Oates (1971) ha individuato cinque tipi di workaholics: “incallito”, “convertito”, “occasionale”, lo “pseudo-workaholic” e l’ ”escapista”. L’ ”incallito”è una persona precisa e perfezionista che prende molto sul serio il lavoro ed è soggetto a forte rischio di stress, molto abile nel suo lavoro ma intollerante verso l’incompetenza di alcuni colleghi. Il “convertito” è un valido professionista, si impegna nelle regolari ore lavorative e richiede le giuste ricompense per gli straordinari. L’ “occasionale” si impegna molto e lavora troppo con il fine di far fronte alle difficoltà economiche. Lo “pseudo-workaholic” differisce dall’incallito perché quest’ultimo è orientato al raggiungimento di un prodotto mentre l’altro è motivato dal bisogno di potere. L’”escapista” è un individuo che lavora molto per rimandare il ritorno alla vita familiare che piò essere problematica, il lavoro è per lui uno strumento di fuga.

Killinger (1991), pur ritenendo che tutti i workaholics abbiano delle caratteristiche comuni, ne ha differenziato tre tipi. Il workaholic “controllore” apparentemente è una persona colta ed ambiziosa, impulsiva, impaziente, dorme poco e non riesce a rilassarsi, deve essere sempre occupata a fare qualcosa; spesso è un  libero professionista o ricopre posizioni di grande prestigio nelle aziende. Si tratta di individui brillanti, simpatici apparentemente socievoli ma in realtà hanno pochi amici intimi. Dietro questa maschera apparentemente impeccabile si cela una grande insicurezza ed una forte ansia che li porta a diventare irascibili e a sottomettere le persone. Utilizzano principalmente meccanismi di difesa quali il  diniego, la razionalizzazione e l’evitamento. Il secondo tipo è il workaholic “controllore narcisista” che ha varie cose in comune con il tipo precedente e presenta tratti narcisistici: non ha sviluppato la capacità di amare incondizionatamente e tende a manipolare gli altri per raggiungere i propri fini, è testardo orgoglioso e spesso ricorre alla dissociazione quando lo stress aumenta. Il terzo tipo è il workaholic “compiacente”, cioè workaholics meno ambiziosi, più socievoli e fortemente consapevoli degli altri e dei loro bisogni, amano stare tra la gente, ma possono diventare eccessivamente dipendenti, spesso scelgono impieghi di media dirigenza, dal momento che per loro l’apprezzamento dei superiori e la stima degli altri è fondamentale (Lavanco &Milio,2006).

Robinson (1998) ha classificato i workaholics in quattro tipi: “instancabile”, “con deficit di attenzione”, “bulimico” e “assaporatore”; inoltre ne ha individuato un altro, il careholic, che li attraversa, cioè può presentarsi in combinazione con uno degli altri tipi. L’ “instancabile” è quello che più si rispecchia nell’immagine del workaholic “classico”: lavora compulsivamente e costantemente, senza andare in vacanza né trascorrendo il suo  tempo in attività di svago o riposandosi, prende il lavoro molto seriamente e si impegna in più attività contemporaneamente, è perfezionista e scrupoloso e si pone standard praticamente irraggiungibili, il lavoro è per lui più importante delle relazioni interpersonali. Il “bulimico” ha molte caratteristiche in comune con le persone che soffrono di questo disturbo dell’alimentazione: ha uno stile lavorativo in cui lunghi periodi di astinenza si alternano a una intensa ed eccessiva, egli può non lavorare per molto tempo rinviando ogni impegno il più possibile finchè, costretto e preso dal panico, si dà da fare senza sosta per portarlo a termine. Il workaholic con “deficit di attenzione” cerca continuamente stimoli nuovi perché spesso si annoia. Spesso ha un deficit di attenzione e difficoltà a concentrarsi sul lavoro e spesso trascura il lavoro che sta facendo per passare ad un altro. Questo tipo di workaholic è caratterizzato da un’alta propensione a iniziare le attività e da una bassa capacità di portarle a termine.

Il quarto tipo, l’ “assaporatore”, si contraddistingue per il modo di fare lento, metodico e riflessivo. Trovano difficoltà a lavorare in gruppo perché sono eccessivamente lenti e perfezionisti, non concludono un lavoro senza essere sicuri di averlo realizzato alla perfezione fin nei minimi dettagli. Il quinto profilo, il careholic, può presentarsi con uno dei tipi precedentemente descritti. Il careholism è la “dipendenza da lavoro camuffata da nobili intenzioni”. Questo tipo di workaholic si trova soprattutto nell’ambito delle helping professions ed è una persona che ha bisogno di aiutare gli altri ed andare incontro ai malati, tende a prendersi cura di tutti tranne che di se stesso, esponendosi al rischio di stress e burnout (Lavanco & Milio,2006)

Spence e Robbins a partire da una chiara definizione di workaholism hanno provato a sviluppare misure empiriche corredate da informazioni psicometriche. Il workaholic è per loro “una persona estremamente dedita al lavoro ma che mostra scarso piacere in esso e si sente spinta a lavorare da una pressione interna”. La “dedizione al lavoro”, la “sensazione di essere costretti a lavorare” e il “piacere nel lavorare” sono le tre caratteristiche del workaholism secondo le due autrici. Dalle risposte agli item della batteria sono emersi diversi profili che le autrici hanno identificato come workaholics “appassionati di lavoro”, workaholics “entusiasti”, “lavoratori disimpegnati”, “lavoratori rilassati” e “lavoratori disincantati”. Di questi sei tipi, i primi tre riflettono un comportamento workaholic.

Il workaholic vero e proprio è quello che ha punteggi elevati sia rispetto alla compulsione a lavorare sia rispetto alla dedizione al lavoro, mentre risulta poco appagato da esso; l’ “appassionato del lavoro” presenta un punteggio sopra la media nella dedizione al lavoro, trascorre molto tempo a lavorare o a pensare al lavoro; il workaholic “entusiasta” presenta punteggi elevati in tutte le tre componenti. Dalle ricerche si evince che i workaholic ottengono i valori più alti in altre tre scale che misurano il perfezionismo, lo stress legato al lavoro e all’incapacità di delega delle responsabilità, oltre che in quella relativa alla presenza di problemi di salute.

Scott et al. (1997) hanno identificato tre elementi nello stile comportamentale dei workaholic da cui derivano tra tipologie di workaholics: “impiegare il tempo libero in attività lavorative”, “lavorare al di là delle richieste organizzative” e “pensare al lavoro anche quando si fa altro”.

I tre tipi di workaholic sono: il “compulsivo dipendente”, sa di lavorare troppo ma non tiesce a ridurre le ore di lavoro, quando non lavora è triste e depresso e sviluppa alti livelli di stress e problemi di salute; il “perfezionista”, ha bisogno di controllare tutto e ciò lo porta ad essere rigido e ricercare sul lavoro posizioni di potere, alto rischio di stress, problemi fisici e psicologici e difficoltà interpersonali, assenteismo; workaholic “orientato al successo”, è un lavoratore che può mostrare un pattern comportamentale di “tipo A”, che include competitività, senso di pressante necessità e un forte desiderio di successo e, a differenza degli altri workaholics, non è ossessionato dal lavoro, non sperimenta l’ansia e lo stress che accompagnano altri tipi di workaholics.

 

3.2.3 Lo stile cognitivo del workaholic

Robinson (1998) individua alcune forme di pensiero rigido che caratterizzano lo stile cognitivo del workaholic. Il “pensiero perfezionista” esprime il bisogno di perfezione del workaholic, che origina dal senso di inferiorità e lo spinge a volere più di quanto può ottenere, portandolo a sperimentare sentimenti di inadeguatezza, sconfitta e frustrazione.

Il “pensiero telescopico” porta invece il workaholic a focalizzarsi su alcuni aspetti del lavoro piuttosto che su altri e invece di valorizzare ed essere orgoglioso per i successi, rileva costantemente gli errori, pensiero questo che sembra essere originato dalle critiche dei genitori che portano ad un vissuto di vergogna e che successivamente lo costringono a a vedersi come inferiore perché si confronta continuamente con standard eccellenti.

Il “pensiero compiacente” si esprime attraverso la tendenza a trascurare se stesso e diventando accondiscendente e accontentando gli altri, convinto che le opinioni che gli altri si fanno su di lui siano più importanti rispetto alla concezione che ha di sé stesso.

Il “pensiero pessimistico”: non tengono conto degli aspetti positivi della vita e si concentrano solamente su quelli negativi e ciò li porta a credere che tutto sia negativo e che qualcosa di brutto presto o tardi accada.

Il “pensiero vittimistico”: il workaholic crede di essere vittima di forze esterne, quali un capo severo ed esigente, la crisi economica, le richieste e i bisogni della famiglia, che lo spingono a lavorare eccessivamente.

Il “pensiero difensivo” porta il workaholic a considerare la vita come una battaglia, per vivere bisogna lottare contro una serie di forze che lo sfidano e non c’è tempo per sé o per rilassarsi, ogni minuto perso può impedire il raggiungimento della perfezione a cui tende.

Il “pensiero esternalizzato”: il suo valore è sancito dagli altri e definisce se stesso in base ai risultati e agli obiettivi che raggiunge.

 

3.2.4 Il workaholic nel contesto lavorativo

La presenza nel contesto lavorativo di un workaholic crea non pochi disagi e problemi ai colleghi e a tutta l’organizzazione aziendale anche perché non sono gli eccellenti lavoratori che molti immaginano (Garfield,1987) perché non sono orientati al raggiungimento dell’obiettivo aziendale ma sono dipendenti proprio dal processo del lavorare, apparentemente sono grandi lavoratori, che si dedicano totalmente alla professione, ma in realtà la ragione per cui lo fanno non è vera “vocazione” ma solo tenersi impegnati, per sfuggire alle responsabilità familiari e personali. Robinson e Porter sostengono che il wokaholic non lavora bene in gruppo per vari motivi:

– ha bisogno di controllare tutto e questo rende difficoltoso il lavoro in team;

– lavorare in gruppo richiede la condivisione di obiettivi comuni e il lavorare insieme per raggiungere tali obiettivi e questo è fonte di frustrazione per il workaholic (Fassell,1990);

–  il workaholic preferisce lavorare da solo e tende ad isolarsi, elemento che contrasta con lo spirito di gruppo;

–  l’eccessivo perfezionismo ed i ritmi spesso serrati fanno sì che il workaholic lavori meglio da solo o con altri workaholics (Klaft, Kleiner,1988);

– il workaholic è riluttante a delegare i compiti o a condividere gli obiettivi con altri(Gee,2000).

Per il suo comportamento diligente e responsabile, per l’impegno e la dedizione al lavoro, molto spesso il workaholic viene ricompensato con la promozione e assume posizioni dirigenziali, tendendo a mettere sotto pressione gli impiegati perché raggiungano i risultati desiderati, rispettino gli orari e i ritmi lavorativi (Robinson,1998). Tendono ad eccedere nelle critiche verso gli altri e non tollerano gli errori e ciò provoca nei dipendenti reazioni di ansia, paura e insicurezza. Inoltre l’umore del workaholic spesso oscilla tra il distaccato e l’irritabile, fa promesse che poi non mantiene, modifica i programmi e di conseguenza il clima ambientale è imprevedibile e incoerente e ciò crea difficoltà nello svolgimento del lavoro.

La differenza fondamentale tra un qualsiasi lavoratore e un workaholic risiede nel fatto che il lavoratore può anche imporsi standard elevati ma lavorare per molte ore ma non vittimizza gli altri, ama il proprio lavoro ed è “orientato al successo”, mentre il workaholic crede che nessun altro lavori come lui, non tiene conto del lavoro degli altri e non rispetta le esigenze altrui (Porter, 2001). Dunque la presenza di workaholic non è un fattore positivo per l’organizzazione perché più la dipendenza progredisce più le funzioni cognitive del workaholic peggiorano, l’efficienza e la produttività diminuiscono ed emergono disturbi correlati allo stress e al burnout (Maslach, 1986; Fassel, 1990; Robinson,1998; Porter, 2001) e problemi psicologici quali ansia e depressione.

 

3.2.5 Strumenti di misura della work addiction

Gran parte delle conoscenze che si hanno sulla dipendenza da lavoro deriva da resoconti di storie e casi clinici ma per studiare meglio il fenomeno, comprenderlo a fondo e pianificare interventi efficaci alcuni autori hanno avviato delle ricerche empiriche che potessero integrare le conoscenze ottenute dallo studio dei singoli casi.

Robinson (1989) ha messo a punto uno strumento di misurazione del workaholism che tiene conto anche del contesto in cui il workaholic vive: il Work Addiction Risk Test (WART). Si tratta di uno strumento di misura composto da 25 item i principali comportamenti di “tipo A” messi in atto nella vita quotidiana (mangiare, parlare e muoversi velocemente) e specifici del contesto lavorativo (“mi ritrovo spesso a lavorare dopo che i miei colleghi hanno finito”). Tale strumento sembra avere una buona attendibilità. Gli studi di Robinson sono stati effettuati su studenti e membri del Workaholic Anonymus mentre ricerche successive hanno validato il WART su campioni eterogenei. In uno studio del 2002 Robinson e Flowers hanno indagato le dimensioni sottostanti alla WART, che sono le seguenti:

–  tendenze compulsive;

–  controllo;

–  comunicazione disfunzionale/arroganza;

–  incapacità di delegare;

–  autostima.

Un altro strumento meno utilizzato del precedente ma comunque importante è la Schedule For Nonadaptive Personality Workaholism (SNAP- WORK), messa a punto da Clarke nel 1993 e si basa sull’ipotesi che ci sia una corrispondenza tra workaholism e disturbo ossessivo- compulsivo di personalità. E’ composta da 18 item a risposta chiusa (vero/falso), presenta una elevata consistenza interna e una buona attendibilità.

Lo strumento più utilizzato dai ricercatori è senza dubbio il Workaholism Battery (WORK-BAT). Spence e Robbins nel 1992 costruirono questo strumento composto da 23 item con un formato di risposta su una scala a 5 punti e formato da tre scale:

–  scala drive: D, indagala motivazione. E’ composta da 7 item, quali, ad esempio, “Ho la sensazione che qualcosa dentro di me mi spinga a lavorare duramente”;

–  scala work enjoyment: E, indaga il piacere nel lavorare. E’ composta da 9 item quali, ad esempio, “Il mio lavoro è così interessante e piacevole che non sembra un lavoro”;

– scala work involvment: I, indaga la dedizione al lavoro. E’ composta da 7 item quali, ad esempio, “Mi annoio e mi irrito durante le vacanze, quando non ho niente di produttivo da fare”).

Successivamente Spence e Robbins hanno aggiunto altre 5 scale:

ü  coinvolgimento nel lavoro: 7 item quali, ad esempio, “Sono profondamente assorto nel mio lavoro”;

–  tempo dedicato al lavoro: 7 item quali, ad esempio, “Dedico molto più tempo al lavoro che alle persone;

–  stress legato al lavoro: 9 item quali, ad esempio, “A volte mi sembra che il mio lavoro stia per travolgermi”;

– perfezionismo: 8 item quali, ad esempio, “ Non posso mettere da parte un lavoro se non sono sicuro che sia stato realizzato alla perfezione”;

–  difficoltà a delegare: 7 item quali, ad esempio, “ Sono convinto che se uno vuole che una cosa sia fatta bene, bisogna che la faccia da sé”.

Questo strumento mostra buone caratteristiche psicometriche quali validità di contenuto e validità esterna ma esiste disaccordo sulla sua struttura interna. Ciò ha spinto McMillan (2000) a migliorare lo strumento trasformandolo in uno strumento a due scale (scala D e scala E) composto da 14 item e che attualmente è sottoposto ad analisi psicometriche anche se sembra che abbia una buona consistenza, attendibilità, validità convergente e utilità scientifica.

 

3.2.6 Le principali ricerche sul fenomeno

Di seguito una rassegna delle principali e più recenti ricerche sul tema della dipendenza da lavoro.

Un primo filone di ricerca riguarda i fattori implicati nella dipendenza da lavoro. Snir e Harpaz (2003; 2004), partendo dalla definizione di workaholism data da Snir e Zohar secondo cui è la quantità di tempo stabile e significativa che una persona impiega nel lavoro , pur non richiedendolo necessità esterne, misurano la dipendenza da lavoro in termini di tempo trascorso al lavoro  e considerano i bisogni economici che lo determinano. Questi autori hanno messo in relazione il workaholism con alcune variabili attitudinali (indici di significato attribuiti al lavoro: centralità del lavoro, orientamento economico, relazioni interpersonali), demografiche (genere, stato civile) e situazionali (professione, settore di impiego) in due campioni rappresentativi della forza lavoro israeliana. E’ emerso che le variabili significativamente legate al workaholism e quindi considerate possibili predittori della dipendenza da lavoro sono state: la centralità riservata al lavoro nella vita del soggetto, la motivazione economica, il tipo di professione (manager e liberi professionisti), il settore di impiego (privato) e il genere (maschile). E’ emerso anche che il numero di ore lavorative settimanali è uno dei principali fattori della dipendenza da lavoro a cui sono correlati positivamente un elevato grado di soddisfazione professionale, lo svolgere una libera professione, il fatto di essere laico mentre vi è una correlazione negativa per quanto riguarda la centralità riservata alla famiglia.

Mudrack (2004) ha fatto riferimento alla definizione di workaholism di Naughton che considera questo fenomeno come il risultato di una combinazione tra elevato interesse per il lavoro e una struttura di personalità ossessivo-compulsiva e si è posto l’obiettivo di esplorare tale ipotesi. Mudrack parte dal presupposto che l’elevato coinvolgimento nel lavoro sia associato ad alti livelli di ostinazione, ordine, rigidità e ciò porterebbe alla tendenza a lavorare più del necessario. I risultati hanno confermato la relazione tra questo tipo di personalità e la dipendenza da lavoro.

Un secondo filone di ricerca riguarda il genere, anche se la relazione tra questi due costrutti è ancora una questione aperta, dalle ricerche non emergono differenze significative tra uomini e donne nello sviluppare questo tipo di dipendenza (Spence, Robbins, 1992; Burke 1999, Porter,2001). Spence e Robbins(1992) hanno messo a confronto professionisti donne e uomini che ricoprivano posizioni accademiche, mentre Burke(1999) ha condotto una ricerca su un campione di manager e professionisti ed entrambe le ricerche sono giunte al risultato che non ci sono differenze di genere rispetto alla dedizione al lavoro, al perfezionismo e alla difficoltà a delegare. Nello studio condotto da Spence e Robbins è emerso che le donne sono più spinte a lavorare ma sono anche più soddisfatte e coinvolte nel loro lavoro rispetto agli uomini, dedicano anche più tempo alla professione e presentano un più alto grado ci stress correlato al lavoro e più problemi di salute.

Nell’ambito di indagine che ha avuto come oggetto la famiglia, Robinson e Kelley (1997) hanno esaminato l’influenza della dipendenza da lavoro su soggetti adulti cresciuti in una famiglia workaholic. I genitori sono stati classificati come workaholics e non workaholics  sulla base dei punteggi che i figli hanno dato sulla scala WART mentre i figli sono stati valutati in base alle dimensioni di ansia, depressione, locus of control e immagine di sé. Sono state confermate le osservazioni cliniche secondo le quali i figli dei workaholics tendono a compiacere i genitori ed è emerso che coloro che avevano riconosciuto i propri genitori come workaholics  soffrivano di ansia e depressione, mancavano di fiducia in sé stessi e presentavano un locus of control esterno.

O’ Driscoll et al.(2004) ritengono che una persona debba avere un equilibrio ed essere ugualmente coinvolta e soddisfatta dal suo ruolo professionale e familiare ed indicano come variabili a sostegno di questo rapporto  i colleghi e la famiglia: se il sostegno che questi danno è insufficiente ne deriverà un insoddisfazione sul piano professionale e familiare. Propongono un modello in base al quale il sostegno da parte dei colleghi ha un effetto diretto sulla soddisfazione professionale mentre il sostegno della famiglia ha un effetto diretto sulla soddisfazione nel contesto familiare. Questi autori hanno condotto una ricerca su un vasto campione di impiegati di 23 organizzazioni neozelandesi operanti in diversi settori ed è emerso che esiste realmente un rapporto diretto tra il sostegno dei colleghi e dei familiari sulla soddisfazione personale e familiare e rapporti equilibrati tra lavoro e famiglia agiscono positivamente sulla soddisfazione professionale e familiare e permettono di ridurre l’assenteismo e lo stress lavorativo.

Sempre O’Driscoll in collaborazione con McMillan (2004) ha indagato la percezioni dei workaholics rispetto al proprio stato di salute partendo dalla credenza secondo la quale i workaholics non si prendono cura si sé e tendono a negare la stanchezza finché non sono costretti a chiedere aiuto per i loro problemi fisici ma le differenze tra gruppo di workaholic e gruppo di controllo si sono rivelate non statisticamente significative.

Hodson (2004) ha indagato quali categorie di individui mostrano un maggiore attaccamento al lavoro ed è giunto alla conclusione che i lavoratori che occupano posizioni più elevate, che traggono dal lavoro ricompense materiali e sociali maggiori intrattengono migliori relazioni sociali nell’ambiente professionale, sono più motivati a lavorare e più inclini al workaholism rispetto a coloro che occupano posizioni più basse.

Altre ricerche si sono poste l’obiettivo di valutare gli strumenti di misura della work addiction. Taris et al. (2005) hanno sviluppato e validato la versione tedesca della WART e successivamente hanno indagato se la sottoscala delle tendenze compulsive (CT)  della WART potrebbe essere usata come misura di workaholism ed infine  si sono interessati agli effetti del workaholism sull’esaurimento del soggetto e sui conflitti tra lavoro e altre attività. E’ emerso che la versione tedesca della WART è molto simile a quella americana e che la sottoscala delle tendenze compulsive può essere considerata una valida misura della dipendenza da lavoro. Un’altra ricerca (Ersoy- Kart, 2005) si è occupata di valutare l’attendibilità e la validità della versione turca della WORK-BAT.

 

3.2.7 Prevenzione e ticniche di intervento

Un intervento di prevenzione efficace per contrastare lo sviluppo delle dipendenze è sicuramente la  scuola, che dovrebbe avvertire i giovani sui rischi che determinate condotte socialmente accettare, come il lavoro, possono comportare ed estendere tali informazioni anche a livello del gruppo familiare, al fine di dare un quadro generale su cos’è la work addiction, come riconoscere la sintomatologia, sottolineando le conseguenze che può avere nella vita di una persona (Schaef & Fassel, 1989).

Purtroppo ancora oggi questa è una dipendenza poco conosciuta e un fenomeno sociale sottovalutato e spesso viene diagnosticata solo quando è associata ad altre problematiche psichiche o fisiche, uno stato di cose che al momento consente perlopiù una diagnosi in fase avanzata, magari in seguito a infarti o ad altre gravi malattie, per le quali viene prescritto un assoluto riposo lavorativo.

Spesso i primi ad accorgersi della dipendenza non è il workaholic ma i familiari e quindi una diagnosi precoce potrebbe iniziare anche nell’ambito del trattamento dei problemi familiari o di coppia, in cui la dipendenza da lavoro può giocare un ruolo negativo decisivo (Robinson, Flowers & Ng, 2006; Robinson & Post, 1995).

La maggior parte delle persone arriva all’osservazione clinica quando ha già sviluppato da diversi anni il comportamento di abuso con ripercussioni nei diversi ambiti di vita del soggetto.

Attualmente si fa diagnosi work addiction attraverso una serie di strumenti tra cui osservazione, colloquio, raccolta anamnestica, somministrazione del WART o della WORK-BAT o della SNAP-WORK e non c’è un trattamento specifico per il workaholism. Si rende comunque necessario un intervento integrato e multimodale ed è di fondamentale importanza lavorare sulla ristrutturazione cognitiva, sulla costruzione della motivazione al cambiamento, sul recupero delle emozioni e sulla capacità di comunicazione emotiva, sull’autostima, sulla tendenza all’autodistruzione, sulle relazioni affettive, di coppia e familiari.

 

Il percorso psicoterapeutico dovrebbe includere (Pani & Sagliaschi, 2010):

ü  un trattamento farmacologico: un modulatore del tono dell’umore è efficace per gestire la componente compulsiva e l’ossessione nei confronti del lavoro;

ü  la psicoterapia cognitivo-comportamentale, la psicoterapia psicodinamica individuale e la psicoterapia di gruppo (ad esempio, lo psicodramma psicoanalitico) centrate in ogni caso sull’aiutare il paziente a sperimentarsi in specifiche abilità comunicative come empatia, sensibilizzazione all’autoanalisi, apertura relazionale; importante l’incentivare la capacità di identificare, riconoscere e poi esprimere le emozioni, mentalizzare e regolare gli affetti usandoli nell’ambito delle relazioni personali in modo adeguato mirando a una maggiore autonomia interiore, e non solo all’apparente indipendenza;

– la terapia familiare e di coppia può essere utile per ricostruire la comunicazione, reintegrare la fiducia tra i soggetti e favorire l’intimità tramite la condivisione emotiva;

–  i gruppi di auto-aiuto consentono alla persona di sperimentare il senso di appartenenza, l’importanza di vivere delle relazioni interpersonali, fanno vivere gli altri come interessati ad aiutarla consentendole di instaurare relazioni autentiche.

Workaholics Anonymus è un gruppo di individui che condividono la propria esperienza, le loro forze e le loro aspettative , nel tentativo di risolvere il loro comune problema e di aiutare gli altri membri ad uscire dal circolo vizioso della dipendenza da lavoro e l’unica condizione richiesta per entrare a farvi parte è il desiderio di uscire dalla work addiction.

La nascita dei Workaholics Anonymus si fa risalire al 1983 e fu fondato da un progettista di una società finanziaria di New York e un insegnante, due ex workaholics, e decisero di fondare il gruppo per aiutare chi soffriva di questa dipendenza. Al primo incontro partecipò anche la moglie del progettista ed ebbe inizio anche il Work- Anon, programma rivolto a chi aveva relazioni con un workaholic. Quasi contemporaneamente in altri paesi degli Stati Uniti emersero gruppi simili e nel 1990 i rappresentanti di questi gruppi si riunirono e costituirono ufficialmente il World Service Organization per i Workaholics Anonymus ed adattarono i Dodici Passi(mezzi per intervenire sulla compulsione e per stabilire uno stile di vita più sano e soddisfacente) e le Dodici tradizioni(che riguardano la vita dell’Associazione stessa) dagli Alcolisti Anonimi.

 

Di seguito l’elenco delle Dodici Tradizioni dei Workaholics Anonymus:

1. Il nostro comune benessere dovrebbe venire in primo luogo; il recupero personale dipende dall’unità di W.A.
 2. Per il fine del nostro gruppo non esiste che una sola autorità ultima: un Dio d’amore, comunque Egli possa manifestarsi nella coscienza del nostro gruppo. I nostri leader non sono altro che dei servito­ri di fiducia; essi non governano.
3. L’unico requisito per essere membri di W.A. è desiderare di smettere di lavorare compulsivamente.
4. Ogni gruppo dovrebbe essere autonomo, tranne che per le questioni riguardanti altri gruppi oppure W.A. nel suo insieme.
5. Ogni gruppo non ha che un solo scopo primario: portare il messaggio al workaholic che soffre ancora.
6. Un gruppo W.A. non dovrebbe mai avallare, finanziare o prestare il nome di W.A. ad alcuna istituzione similare od orga­nizzazione esterna, per evitare che problemi di denaro, di proprietà e di prestigio possano distrarci dal nostro scopo primario.
7. Ogni gruppo W.A. dovrebbe mantenersi completamente da solo, rifiutando contributi esterni.
8. W.A. dovrebbe rimanere per sempre non professionale ma i nostri centri di servizio potranno assumere degli impie­gati appositi.
9. W.A. come tale non dovrebbe mai essere organizzata, ma noi possiamo costituire dei consigli di servizio o comitati, direttamente responsabili verso coloro che essi servono.
10. W.A. non ha opinioni su questioni esterne; di conseguenza il nome di W.A. non dovrebbe mai essere coinvolto in pubbliche controversie .
11. La politica delle nostre relazioni pubbli­che è basata sull’attrazione piuttosto che sulla propaganda; noi abbiamo bisogno di con­servare sempre l’anonimato personale a livello di stampa, radio e filmati.
12. L’anonimato è la base spirituale di tutte le nostre Tradizioni, che sempre ci ricorda di porre i principi al di sopra delle personalità.
 

I Dodici Passi dei Workaholics Anonymus:

1) Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte al lavoro e che le nostre vite erano divenute incontrollabili.
2) Siamo giunti a credere che un Potere più grande di noi potrebbe ricondurci alla ragione.
3) Abbiamo preso la decisione di affidare le nostre volontà e le nostre vite alla cura di Dio, come noi potemmo concepirLo.
4) Abbiamo fatto un inventario morale profondo e senza paura di noi stessi.
5) Abbiamo ammesso di fronte a Dio, a noi stessi e a un altro essere umano, l’esatta natura dei nostri torti.
6) Eravamo completamente pronti ad accettare che Dio eliminasse tutti questi difetti di carattere.
7) Gli abbiamo chiesto con umiltà di eliminare i nostri difetti.
8) Abbiamo fatto un elenco di tutte le persone cui abbiamo fatto del male e siamo diventati pronti a rimediare ai danni recati loro.
9) Abbiamo fatto direttamente ammenda verso tali persone, laddove possibile, tranne quando, così facendo, avremmo potuto recare danno a loro oppure ad altri.
10) Abbiamo continuato a fare il nostro inventario personale e, quando ci siamo trovati in torto, lo abbiamo subito ammesso.
11) Abbiamo cercato attraverso la preghiera e la meditazione di migliorare il nostro contatto cosciente con Dio, come noi potemmo concepirLo, pregandoLo solo di farci conoscere la Sua volontà nei nostri riguardi e di darci la forza di eseguirla.
12) Avendo ottenuto un risveglio spirituale come risultato di questi Passi, abbiamo cercato di portare questo messaggio ai workaholics e di mettere in pratica questi principi in tutte le nostre attività.

Attraverso i Dodici Passi il workaholic diventa capace di ristabilire un contatto con se stesso, accettandosi per quello che è e sperimentando un nuovo modo di pensare al lavoro. Inoltre sono sorti degli strumenti di ausilio al metodo dei Dodici Passi, piccoli accorgimenti per vivere bene e liberi dal woraholism e che comprendono azioni quali ascoltare, stabilire le priorità, divertirsi, concentrarsi su una cosa alla volta, passeggiare.

Per Fassell (1990) lo strumento indispensabile per la cura dei workaholics è proprio la partecipazione ai W.A., mentre tutti gli altri strumenti sono buoni ausili. I fattori terapeutici dei gruppo di WA sono:

–  la presenza di ex workaholics che sono usciti con successo dalla dipendenza, che possono supportare il workaholic nel programma di lavoro e accompagnarlo nei Dodici Passi e raccontare la propria esperienza;

–  gli incontri: si tratta di incontri settimanali in cui vengono condivise esperienze personali attraverso le storie di ogni workaholic;

–  setting accogliente, protetto, in cui è garantito l’anonimato;

–  elaborazione di programmi di lavoro: guida al lavoro quotidiano che permetta al workaholic di condurre una vita più equilibrata.

Una delle tecniche più utili nell’intervento con il workaholic è l’elaborazione di un “programma di self-care”(Robinson, 1998) personalizzato in base ai suoi bisogni e al suo stile di vita. Si tratta di strategie volte ad introdurre nella vita del workaholic degli spazi dedicati agli hobby, al divertimento, alle relazioni interpersonali e a stabilire orari lavorativi ragionevoli e scadenze realistiche. Prima di stabilire un programma di questo tipo, il terapeuta chiede al paziente di immaginare la sua vita come un cerchio diviso in quattro parti: se stesso, famiglia, divertimento e lavoro e dapprima il workaholic deve segnare la percentuale di tempo che dedica ad ogni area, “percentuale attuale”, e poi quella che vorrebbe dedicare ad esse, “percentuale desiderata”, per poi sottrarle e ottenere il cambiamento necessario per bilanciare le diverse aree ed infine per ognuna di queste aree deve individuare tre o quattro obiettivi per raggiungere lo scopo.

Sempre secondo Robinson (1998) se nel proprio lavoro ci si trova di fronte a un dirigente workaholic bisogna mettere in atto dei comportamenti che, a lungo termine, daranno i loro frutti e tra questi troviamo il bisogno di stabilire dei confini ragionevoli al proprio lavoro, mantenendo un proprio equilibrio, anche mediante l’ausilio di esercizi di aereobica, di riduzione dello stress e di meditazione, evitare di arrabbiarsi e diventare intolleranti, programmare un incontro di chiarificazione delle reciproche apettative, incoraggiando la formazione di un gruppo di sostegno tra colleghi che condividono gli stessi problemi (Fassel,1990; Robinson, 1998).

Burkwell e Chen (2002) sostengono che la Rational Emotive Behavioural Therapy (REBT), tecnica fondata sulla concezione che le emozioni e i comportamenti derivino da processi cognitivi e che modificandoli si possono realizzare modi diversi di sentire e comportarsi, sia il miglior approccio per il trattamento della dipendenza da lavoro. Con tale tecnica si aiuta il workaholic a fronteggiare i propri bias cognitivi, emotivi e comportamentali e si ricostruiscono credenze più sane e ragionevoli e si modificano i comportamenti disfunzionali. Per esempio di fronte ad un’idea del tipo “se il mio capo esprime un giudizio negativo sono sicuro che ho sbagliato lavoro”, una credenza più opportuna sarebbe “spesso ho ricevuto buoni giudizi dal mio capo quindi la possibilità che mi faccia delle critiche sono poche, ma se ciò dovesse accadere, devo ricordare che è solo il giudizio di una persona sul mio lavoro mentre molte altre mi hanno detto che ho un grande talento nel mio campo”. E’  importante aiutare il workaholic a prendere coscienza di come i pensieri negativi danneggiano la salute e l’autostima ed insegnargli ad identificare le emozioni e ad accettare anche quelle negative perché solo sperimentandole pienamente si possono fronteggiare, e ad accettare i propri limiti.

Gli interventi per la cura della dipendenza da lavoro mirano ad una serie di obiettivi  tra cui un aumento della capacità di introspezione, favorire l’elaborazione di esperienze passate traumatiche (per fare ciò è importante che il terapeuta rappresenti una base sicura), aiutare il workaholic a costruire un senso di sé stabile, sviluppare capacità di intimità con se stesso e apertura verso gli altri, far acquisire al workaholic competenze comunicative e sociali, fargli comprendere il processo di dipendenza e far crescere il senso di consapevolezza, sviluppare strategie di prevenzione di ricadute, educarlo ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Si tratta di un percorso lungo e ricco di sofferenza ma indispensabile per uscire dal circolo vizioso della dipendenza.

Psicodinamica delle dipendenze

Si definisce con l’espressione dipendenza patologica “una forma morbosa determinata dall’uso distorto di una sostanza, di un oggetto o di un comportamento; una specifica esperienza caratterizzata  da un sentimento di incoercibilità e dal bisogno coatto di essere ripetuta con modalità compulsive, ovvero una condizione invasiva in cui sono presenti i fenomeni del craving, dell’assuefazione e dell’astinenza in relazione a un’abitudine incontrollabile e irrefrenabile che il soggetto non può allontanare da sé” (Caretti, La Barbera,2009).

Nel panorama attuale, oltre alle dipendenze “classiche” e maggiormente diffuse quali la dipendenza da droghe e alcol, si sta delineando un gruppo di dipendenze che coinvolgono oggetti e comportamenti normali e presenti nella vita quotidiana. Tale fenomeno può essere definito “tossicomania oggettuale” e comprende fenomeni quali la dipendenza da cibo, sesso, televisione, Internet, gioco d’azzardo, shopping compulsivo e lavoro.

I criteri diagnostici elencati nel DSM-IV-TR per la dipendenza da sostanze, e che possono essere estesi anche alle “tossicomanie oggettuali”, sono i seguenti:

 

«Per dipendenza si intende una modalità patologica d’uso della sostanza che conduce a menomazione e a disagio clinicamente significativi, come manifestato da tre (o più) delle condizioni seguenti, che ricorrono in un qualunque momento dello stesso periodo di 12 mesi:

1) tolleranza, come definita da ciascuno dei seguenti punti:

–  il bisogno di dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’intossicazione o l’effetto desiderato;

– un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuativo della stessa quantità della sostanza;

2) astinenza, come manifestata da ciascuna dei seguenti punti:

–  la caratteristica sindrome di astinenza per la sostanza (riferirsi ai Criteri A e B dei set di criteri per Astinenza dalle sostanze specifiche);

–  la stessa sostanza (o una strettamente correlata) è assunta per attenuare o evitare i sintomi di astinenza;

3) la sostanza è spesso assunta in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a quanto previsto dal soggetto;

4) desiderio persistente o tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza;

5) una grande quantità di tempo viene spesa nel procurarsi la sostanza (per esempio, recandosi in visita da più medici o guidando per lunghe distanze), ad assumerla (per esempio, fumando “in catena”), o a riprendersi dai suoi effetti;

6) interruzione o riduzione di importanti attività sociali, lavorative e ricreative a causa dell’uso della sostanza;

7) uso continuativo della sostanza nonostante la consapevolezza di avere un problema persistente o ricorrente, di natura fisica o psicologica, verosimilmente causato o esacerbato dalla sostanza (per esempio, il soggetto continua ad usare cocaina malgrado il riconoscimento di una depressione indotta da cocaina, oppure continua a bere malgrado il riconoscimento del peggioramento di un’ulcera causato dell’assunzione di alcol) »

I fattori principali cha caratterizzano una dipendenza sono dunque : tolleranza, astinenza e craving.

La tolleranza corrisponde alla necessità di assumere una quantità sempre maggiore della sostanza per raggiungere il risultato desiderato, l’intossicazione, e cambia da individuo a individuo: per esempio, alcuni bevitori mostrano segni di intossicazione dopo 3-4 bevute mentre altri che hanno lo stesso peso e hanno abitudini alcoliche simili, dopo la stessa assunzione di alcolici presentano segni di intossicazione.

L’astinenza è una condizione patologica che comprende manifestazioni spiacevoli a livello fisico, psichico e comportamentale in seguito alla riduzione o all’interruzione dell’uso di una sostanza. Anche questi variano tra le diverse classi di sostanze e i principali sintomi sono tachicardia, tremori, vertigini, disturbi gastro-intestinali, ansia, pensieri ricorrenti, umore altalenante, comportamenti aggressivi, sensazione di soffocamento, sudorazione. Per attenuare questi spiacevoli sintomi, la persona tende ad assumere dosi sempre più elevate di sostanza entrando così sempre di più in un circolo vizioso da cui è sempre più difficile uscire.

Un fenomeno relativamente nuovo è quello che riguarda il craving che è un concetto molto complesso e su cui si stanno orientando i nuovi studi sulle dipendenze patologiche. Si può definire come “una nuova entità psicopatologica, un’entità sindromica, determinata da un’attrazione così forte verso alcune sostanze o esperienze appetibili da comportare una perdita del controllo e una serie di azioni obbligatorie tese alla soddisfazione del desiderio, anche in presenza di forti ostacoli o pericoli” (Caretti, La Barbera,2009).

Dal punto di vista neurobiologico, è accertato che, nonostante le loro numerose differenze, la maggior parte dei comportamenti di dipendenza incrementano i circuiti della dopamina e della serotonina

Un importanza centrale nello sviluppo delle dipendenze è giocata dai neuroni dopaminergici  e le aree cerebrali maggiormente raggiunte da questi neuroni sono:

–  il nucleo accumbens, in cui si distinguono due regioni: “shell”, che fa parte di strutture implicate nell’integrazione delle emozioni, che provocano risposte motorie, vegetative e neuro-ormonali e la regione definita “core” coinvolta nell’integrazione delle risposte motorie;

–  l’amigdala;

–  l’ippocampo.

Sia l’amigdala che l’ippocampo contribuiscono in maniera  sostanziale al controllo dell’emozionalità, dell’affettività e dei processi cognitivi (Solomon, 1991). I neuroni dopaminergici rispondono a due diversi stimoli motivazionali:  l’appetitivo e il consumatorio (Cannizzaro, 2005).

Gli stimoli consumatori (ad esempio, il gusto gradevole di una bevanda alcolica) attivano, in particolare, solo i neuroni della via mesolimbica. La via dopaminergica mesolimbica rappresenta la via finale comune per il rinforzo e a gratificazione indotti da stimoli fisiologici o da sostanze d’abuso psicotrope. La dopamina è definita il neurotrasmettitore del “piacere” (Cannizzaro, 2005).

Il rilascio di dopamina a livello dei neuroni mesolimbici, è prodotto da un’ampia varietà di stimoli fisiologici gratificanti. La via dopaminergica mesolimbica è direttamente attivata dalle sostanze psicotrope.

L’assunzione di determinate sostanze o la messa in atto di  un certo comportamento quale ad esempio il lavoro induce una gratificazione molto intensa e veloce, dovuta  al rapido incremento di dopamina nel sistema mesolimbico(Di Chiara, North, 1992)

L’insieme dei meccanismi che caratterizzano la gratificazione è responsabile  del rapido instaurarsi del fenomeno della dipendenza (Stahal, 2000).

Parliamo del reward system come di un insieme di circuiti neuronali che determina il potenziale di abuso e il processo di addiction. La componente di base della dipendenza é la capacità delle sostanze psicotrope di generare una protoesperienza di piacere–benessere, tale esperienza viene definita da Salvini (2002) “ricompensa psicobiologica”.

Nel 2006 La Barbera, Caretti e Caprara hanno proposto dei nuovi criteri che raccogliessero in un’unica categoria le varie dipendenze, tra cui  la dipendenza da sostanze, disturbi del comportamento alimentare, il gioco d’azzardo patologico e le nuove dipendenze quali la work addiction, la dipendenza sessuale, il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da Intenet . I criteri sono i seguenti:

«A) Persistente e ricorrente comportamento di dipendenza maladattivo che conduce a menomazione o disagio clinicamente significativi, come indicato da un totale di cinque (o più) dei seguenti criteri [con almeno due da (1), di cui uno è (c), due da (2) e uno da (3)] per un periodo di tempo non inferiore ai 12 mesi.

1) Ossessività

a) pensieri e immagini ricorsivi circa le esperienze di dipendenza o le ideazioni relative alla dipendenza (per es. è eccessivamente assorbito nel rivivere esperienze di dipendenza passate o nel fantasticare o programmare le esperienze di dipendenza future);

b) i pensieri e le immagini relativi al comportamento di dipendenza sono intrusivi e costituiscono tensione ed eccitazione inappropriate e causano ansia o disagio marcati;

c) in qualche momento del disturbo la persona ha riconosciuto che i pensieri e le immagini sono prodotti della propria mente (e non suscitati dall’esterno).

2) Impulsività

a) irrequietezza, ansia, irritabilità o agitazione quando non è possibile mettere in atto il comportamento di dipendenza;

b) ricorrente incapacità di resistere e di regolare i desideri di dipendenza inappropriati e gli impulsi a mettere in atto il comportamento di dipendenza.

3) Compulsività

a) comportamenti di dipendenza ripetitivi che la persona si sente obbligata a mettere in atto, anche contro la sua stessa volontà, nonostante le possibili conseguenze negative, come conseguenza delle fantasie di dipendenza ricorrenti e del deficit del controllo degli impulsi;

b) i comportamenti o le azioni di dipendenza coatti sono volti a evitare o prevenire stati di disagio o per alleviare un umore disforico (per es. sentimenti di impotenza, irritabilità, inadeguatezza).

B) I pensieri e i comportamenti di dipendenza ricorrenti e compulsivi impegnano il soggetto per la maggior parte del tempo, o interferiscono significativamente con le sue normali abitudini, con il funzionamento lavorativo (o scolastico), o con le attività o le relazioni sociali usuali.

C) I pensieri e i comportamenti di dipendenza ricorrenti e compulsivi non avvengono esclusivamente durante un episodio maniacale, o condizioni mediche generali».

L’ossessività nelle persone dipendenti è caratterizzata da pensieri ricorrenti riguardanti l’oggetto di dipendenza o la continua ricerca di strategie su come procurarselo, sia esso una sostanza, cibo, sesso, intenet , gioco o lavoro.

Il criterio dell’impulsività  include comportamenti tipici di una sintomatologia astinenziale quali irritabilità, agitazione e rabbia quando non ci sono le condizioni necessarie a mettere in atto il comportamento di dipendenza.

La compulsività è una conseguenza dei due fattori precedenti e si manifesta come il bisogno di mettere in atto il comportamento, nonostante le conseguenze negative, per alleviare il disagio.

Le ricerche sulla dipendenza ritengono che esista un continuum che va dal normale al patologico, lungo il quale è possibile inserire i vari comportamenti: ad un estremo ci sono le dipendenze vere e proprie caratterizzate dai fenomeni di tolleranza, astinenza e craving, poi gli stati di dipendenza che riguardano sostanze, oggetti o comportamenti intenzionali, ma che non intaccano la cognitività, l’affettività e la volizione per poi arrivare all’altro estremo che include normali comportamenti che non hanno nulla a che fare con le caratteristiche proprie della dipendenza e che non sono assolutamente patologici quali ad esempio il desiderio di un bicchiere di vino o di una sigaretta dopo un pasto.

Leissur nel 1994 ha affermato che il soggetto mette in atto i comportamenti di dipendenza per far fronte ad una realtà dolorosa, si crea un’esperienze dissociativa che permette di uscire dalla dura realtà e per alleviare una condizione di disagio. Sono dunque fenomeni dissociativi, situati anche essi lungo un continuum che va dal normale al patologico. Tali esperienze si sottrazione del Sé dalla realtà sono stati definiti da Steiner (1993) “rifugi della mente” intendendo “i luoghi mentali ma anche i comportamenti ripetitivi, i riti e le abitudini personali, in cui ci si ritira quando si vuole sfuggire a una realtà insostenibile perché portatrice di angoscia. Questi rifugi della mente funzionano quindi come una medicazione dell’Io, di un Io che si sente danneggiato o in grave pericolo quando è posto di fronte alla necessità di affrontare il lutto e il dolore psichico collegato con la paura della perdita o con l’esperienza della perdita. Una particolare caratteristica dei rifugi della mente è la relazione con la realtà che non è né pienamente accettata né pienamente ripudiata: se l’allontanamento dalla realtà è parziale e temporaneo allora l’ambivalenza può non essere troppo grave, invece se l’allontanamento è prolungato o permanente sorgono problemi ed il soggetto può rifugiarsi in un mondo onirico o fantastico che trova preferibile al mondo reale e sorgono i comportamenti di dipendenza”.(Steiner,1993)

Stress:modelli teorici

Lo stress  viene definito come una risposta aspecifica dell’organismo a una qualsiasi richiesta proveniente dall’ambiente.

Cannon (1929) per primo tentò di definire il processo che porta dalla stimolazione cerebrale alle manifestazioni biochimiche e somatiche ad esso collegate. E’ stato questo autore a coniare il termine “reazione di allarme” per indicare le reazioni  psico-neuro-endocrinologiche di un organismo di fronte ad uno stimolo percepito come minaccioso.

Negli anni ’30 Selye definì lo stress come “una reazione adattiva fisiologica  a qualunque richiesta di modificazione esercitata sull’organismo da una gamma assai ampia di stimoli eterogenei ed espressa essenzialmente da variazioni di tipo endocrino”. La sua teoria si caratterizza per  tre aspetti fondamentali attraverso cui viene definita la reazione allo stress:

  • aspecificità della reazione di fronte a stimoli di diversa natura(stimoli eterogenei possono determinare la medesima reazione);
  • carattere adattivo-difensivo;
  • reazione endocrina.

Fisiologicamente si configura come “Sindrome Generale di Adattamento” e si struttura in tre fasi:

  • di allarme: si tratta di una situazione di difesa di tipo biochimico, in essa sono compresi i fenomeni che si verificano quando l’agente stressante comincia e far sentire la sua azione sull’organismo;
  • di resistenza: caratterizzata dall’organizzazione funzionale di attività volte allo stabilizzarsi delle difese;
  • di esaurimento: le difese crollano di fronte al protrarsi della situazione stressante.

Non sempre il tipo di risposta dell’organismo ha un effetto negativo, anzi, spesso le modificazioni biologiche permettono all’organismo di adattarsi alle stimolazioni provenienti dall’esterno. Quindi solo se protratto per lungo tempo ed in modo cronico lo  stress ha effetti patogeni sull’organismo.  Selye a tal proposito ha coniato i termini di “eustress”, risposta adattiva che rende l’organismo in grado di interagire in modo adeguato con l’ambiente, e di “distress” che indica la risposta protratta per lungo tempo che assume una valenza negativa per l’organismo.

Un altro importante modello è stato introdotto da Edwards nel 1988 e prende il nome di modello stress/coping, il cui assunto centrale è che l’esperienza di stress produce due effetti: modificazioni sulla salute/benessere della persona e la conseguente motivazione a minimizzare queste effetti attraverso le strategie di coping.

Edwards considera lo stress come la “conseguenza di una discrepanza negativa tra uno stato di desiderio e la percezione di una situazione”, mentre il coping è il “risultato del confronto tra richieste lavorative e abilità individuali”. Tale modello prevede due effetti: conseguenze relative alla salute fisica e psicologica della persona e tentativi di ridurre gli effetti negativi dello stress sulla salute, ossia le strategie di coping.

Il coping influenza le cause dello stress attraverso sei canali:

–  il cambiamento di rilevanti aspetti fisici dell’individuo e dell’ambiente sociale;

–  cambiamenti di aspetti di sé e della personalità;

– trasformando le informazioni che avevano guidato la percezione;

– modificando la costruzione cognitiva della realtà;

– mutando i desideri (per ridurre la discrepanza);

–  abbassando l’importanza attribuita alla discrepanza.

Ogni via offre alternative diverse che un individuo può scegliere di seguire anche se non saranno scelte di tipo razionale. Il numero di alternative esplorate dipenderà dal livello di stress esperito (se basso si usano schemi già collaudati, se alto si scelgono nuove strategie), dall’importanza associata al desiderio (più è alta più l’individuo spenderà tempo nella ricerca di alternative), dal tempo disponibile (se c’è poco tempo a disposizione, la persona sceglierà strategie semplici), dall’esperienza con problemi simili o analoghi (si useranno strategie di coping che hanno funzionato in passato), dalla disponibilità di informazioni da parte di altri colleghi che hanno affrontato situazioni simili. La valutazione delle alternative dipenderà anche dalla percezione delle probabilità di efficacia delle strategie e dall’ambiguità della situazione. Le conseguenze del coping consistono in un’alterazione diretta delle cause dello stress.

Un filone di ricerca che tradizionalmente si è sviluppato all’interno degli studi su tale argomento è quello dello stress lavorativo, a causa della grande importanza  attribuita al lavoro sia in termini di tempo impiegato sia perché attraverso il tornaconto economico che ne deriva si determinano gli standard individuali di vita e lo status sociale connesso, sia perché il lavoro contribuisce in maniera fondamentale alla stima di sé.  Molte ricerche (Frankenhauser & Gardell,1976; Timio & Gentili,1977) hanno dimostrato che esiste un collegamento tra salute mentale, salute fisica e stress lavorativo.

Nell’ambito dei modelli teorici dello stress lavorativo, un contributo importante è stato dato da Cooper e Marshall (1978) che hanno messo a punto un modello, perfezionato poi nel 1988 da Sutherland e Cooper che suddivide le fonti di stress lavorativo in:

–  fonti intrinseche al “job”, cioè alla mansione svolta: fattori fisici e ambientali che possono incidere negativamente sulla concentrazione, sul rendimento, sull’efficienza dei lavoratori (ad esempio la rumorosità, l’illuminazione scarsa o abbagliante, la carenza di igiene ambientale);

–  ruolo nell’organizzazione, nel quale si distingue l’ambiguità di ruolo, ossia la mancanza di chiarezza rispetto al compito, e il conflitto di ruolo, che non è causato da un eccesso di richieste ma da richieste tra loro incompatibili. Quest’ultimo costrutto si divide ulteriormente in conflitto ruolo-persona(l’individuo preferirebbe svolgere mansioni diverse rispetto a quelle che svolge); sovraccarico di ruolo (al soggetto viene assegnato più lavoro rispetto a quanto egli può svolgere)conflitto intramandatario (al soggetto viene assegnato meno personale di quanto necessario per portare a termine un lavoro)conflitto intermandatario (il soggetto si trova a svolgere un compito gradito ad alcuni ma sgradito ad altri).

–  lo sviluppo di carriera può diventare fonte di stress per persone che hanno forti aspirazioni a emergere e raggiungere status socioeconomici elevati, nel momento in cui tali ambizioni sono deluse;

–  le relazioni di lavoro, cioè le difficoltà di relazione con i colleghi, il capo o i dipendenti. Cooper indica quattro stressors relazionali peculiari: l’incongruenza di posizione (il ruolo che si occupa è diverso da quello che si vorrebbe occupare); la densità sociale (uno spazio di vita insufficiente); la personalità abrasiva (persone con comportamenti insensibili verso le emozioni altrui e freddi nelle relazioni e che costituiscono un motivo di stress per chi vi lavora accanto); lo stile di leadership(lo stile con cui un superiore si rapporta ai suoi subordinati, cioè stile autoritario e in questo caso c’è il rischio che i lavoratori si sentano poco coinvolti nell’attività lavorativa e potrebbero sviluppare apatia o tensione, oppure stile democratico in cui i lavoratori sono più coinvolti e motivati);

–  la struttura e il clima organizzativo: quanto più un individuo percepirà in modo rassicurante il clima aziendale, valutando in maniera positiva le richieste formulate dai superiori, tanto più facilmente svilupperà la socializzazione e la motivazione lavorativa.

 

Lo stress cronico porta allo sviluppo di una serie di patologie che si possono suddividere in quattro gruppi:

–  malattie fisiche: lo stress può portare allo sviluppo di patologie cardiovascolari, quali infarto miocardico ed ipertensione arteriosa, gastroenteriche, quali colon irritabile, ulcera peptica, dermatologiche e muscolo-scheletriche, oltre che squilibri ormonali, ipertensione e indebolimento immunitario;

–  disagi psicosomatici: i problemi psicosomatici maggiormente legati allo stress sono i capogiri, mal di schiena, palpitazioni e affaticamento. Più alto è lo stress percepito e maggiori sono i sintomi comunicati;

–  problemi psicologici e comportamentali: secondo Cooper alcuni comportamenti dovuti allo stress portano ad un incremento delle malattie mentali. Tra questi troviamo il tabagismo, l’alcolismo, la dipendenza da farmaci, l’umore depresso, l’insoddisfazione lavorativa, la riduzione dei livelli di aspirazione;

– effetti organizzativi: Cooper annovera tra questi effetti gli alti livelli di assenteismo, l’accentuato avvicendamento del personale (turnover), relazioni industriali difficoltose, scarsa attenzione al controllo della qualità. Tali effetti portano allo sviluppo di vere e proprie “malattie organizzative” tra cui troviamo gli scioperi ad oltranza, incidenti gravi e frequenti sul lavoro, efficienza e produttività scadenti.

 

Partendo dalla definizione secondo la quale la patologia organizzativa è “una qualsiasi dinamica (di natura personale, sociale o istituzionale) che impedisca sistematicamente il raggiungimento degli obiettivi organizzativi e/o che incrini la salute psico-fisica dei collaboratori all’organizzazione”, Kets de Vries e Miller (1992) hanno individuato 5 stili organizzativi patologici: paranoide, ossessivo, isterico, depressivo e schizoide.

–  l’organizzazione paranoide: caratterizzata dalla sospettosità mediante la quale i vertici organizzativi accolgono le informazioni dall’ambiente esterno. Riflette una certa insicurezza verso il futuro e si corre il rischio di affidare un potere eccessivo agli organi di vigilanza, che, essendo molto dispendiosi, devono essere attivati con parsimonia. I processi decisionali tendono ad essere lunghi ed inefficaci;

–  l’organizzazione ossessiva si distingue per un’ eccessiva organizzazione per i dettagli, la struttura organizzativa, i processi decisionali e le strategie aziendali sono guidate da accuratezza estrema, gran parte dell’energia è spesa nei sistemi di controllo e l’organizzazione è eccessivamente gerarchica, perché tale struttura favorisce il controllo sui collaboratori;

–  l’organizzazione isterica è caratterizzata da strategie intuitive e scarsamente fondata su informazioni e ragionamenti e spesso non sono decisioni prese collegialmente ma affidate alla figura del massimo dirigente. Lo stile di vita è ambivalente, oscillante  tra sfere di grande rilevanza strategica e questioni del tutto banali, causando mancanza di continuità e coerenza all’interno dell’azienda;

–  l’organizzazione depressiva si distingue per inattività, conservatorismo e mancanza di fiducia, si fa qualcosa solo se è già programmato e trasformato in routine, burocrazia molto forte e assenza di una vera leadership;

–  l’organizzazione schizoide: anche qui c’è una mancanza di vera leadership e la conseguenza più importante è la mancanza di strategie di prodotto-mercato integrate.

A livello legislativo è stato recentemente introdotto un decreto legislativo che affronta le tematiche riguardanti lo stress e obbliga le aziende ad effettuare una valutazione dei rischi stress lavoro correlato implementando azioni di prevenzione, riduzione ed eliminazione delle fonti potenzialmente stressogene.

 

Strumenti per la rilevazione del burnout.

Esistono diversi strumenti di rilevazione del burnout e quasi tutti quelli che sono reperibili in letteratura misurano gli effetti di questa sindrome sugli operatori mentre non esistono test che analizzano anche le cause, per cui ci si avvale spesso in sede diagnostica e di ricerca di più strumenti contemporaneamente.

Lo strumento più popolare è più utilizzato è il Maslach Burnout Inventory (Maslach & Jackson, 1981).

Maslach e Jackson nel 1980 ,insieme a Freudenberger (1974, 1975) ,affermano che il burnout può portare ad un deterioramento della qualità delle cure o del servizio che viene fornito dal personale e può essere correlato con disagio personale, stanchezza fisica, insonnia, aumento dell’ uso di alcol e droga e problemi coniugali e familiari. Questa ricerca iniziale è di tipo esplorativo e le informazioni sono state ottenute mediante interviste, questionari, indagini ed osservazioni  ed è emerso che vari fattori stressogeni nell’ambiente di lavoro, quali il carico di lavoro e l’ambiguità di ruolo, sono legate con il burnout. Successivamente le autrici hanno provveduto alla messa a punto di uno strumento per valutare questa sindrome e che contiene tre sottoscale che vanno ad indagare i vari aspetti del burnout. Tale strumento prende il nome di Maslach Burnout Inventory (MBI)  e gli item sono stati formulati  per misurare i vari aspetti della sindrome. Durante la prima ricerca di carattere esplorativo si sono raccolti dei dati che sono stati una fonte di idee molto preziose circa gli atteggiamenti e i sentimenti che caratterizzano un lavoratore “bruciato”. Si tratta di uno strumento composto da 25 item ed ognuno di essi viene valutato su due dimensioni: frequenza e intensità con cui la situazione viene vissuta nel lavoro. Le risposte vengono date su una scala Likert da 0 (mai) a 6 (ogni giorno) e per l’intensità 0 (non viene avvertito) a 7 (massima intensità).

Per entrambe le dimensioni sono state individuate tre sottoscale:

–  esaurimento emotivo, composta da 9 item che descrivono sentimenti di sovraesposizione e il sentirsi emotivamente esausti a causa del lavoro. L’item più significativo di tale sottoscala(0,84 sulla frequenza e sulla intensità 0,81)   è il numero uno, “Mi sento emotivamente prosciugato dal mio lavoro”;

–  depersonalizzazione: tale sottoscala è composta da 5 item che descrivono una sensazione di insensibilità verso i destinatari delle cure e del servizio. Per entrambe le scale, punteggi medi elevati corrispondono ad un più alto livello di burnout e tra di esse c’è una correlazione moderata (0,44 per la frequenza e 0.50 per intensità) a dimostrazione del fatto che si tratta di costrutti separati ma correlati tra di loro;

–  realizzazione personale contiene 8 articoli che descrivono la competenza, il portare avanti con successo il lavoro con gli utenti/clienti e il sentirsi soddisfatti e realizzati dal punto di vista personale. A differenza delle altre due sottoscale, più i punteggi medi sono bassi, più il livello di burnout è elevato ed inoltre è indipendente dalle altre due sottoscale. Non può però essere considerata l’opposto delle sottoscale esaurimento emotivo e/o depersonalizzazione infatti le correlazioni tra la sottoscala realizzazione personale e le altre due sono piuttosto basse (-0,17 frequenza e -0,05 intensità, per l’esaurimento emotivo e -0,28 frequenza e -0,22 intensità, per la depersonalizzazione).

Questo strumento è stato costruito sulla base della necessità di valutare il burnout in un’ampia gamma di lavoratori dei servizi socio-sanitari e non solo. Permette di avere informazioni sulle variabili personali, sociali e istituzionale che possono incentivare o ridurre il rischio di burnout che poi potranno essere utilizzate per progettare interventi di prevenzione e cura.

Le qualita psicometriche del questionario sono molto discusse: l’attendibilità calcolata con il metodo del “retest” ha avuto riscontri soddisfacenti, con coefficienti oscillanti tra .70 e .87 mentre la valutazione dell’omogeneità interna effettuata con l’alpha di Cronbach oscillano tra valori di .58 e .90. La struttura fattoriale è stata più volte confermata sia da correlazioni con misure di insoddisfazione lavorativa e di vari comportamenti più o meno adattivi, sia utilizzando osservatori esterni indipendenti (Rafferty,1986). Inoltre, il questionario ha ottenuto conferme interessanti anche in ricerche cross/culturali (Etzion & Pines, 1986).

Sono però state mosse anche varie critiche nei confronti di questo strumento. Alcuni autori (Firth & coll.) parlano di costrutti poco omogenei e ammettono che la scala di depersonalizzazione, che è anche quella più debole) vada adeguata alle varie situazioni. Ma altre ricerche mettono in dubbio che la depersonalizzazione sia un valido indicatore di burnout, soprattutto quando considerato come un costrutto monodimensionale e senza correlarlo a particolari strutture di personalità che sembrano influenzarlo pesantemente (Garden,1987).

In Italia, Guido Contessa è stato tra i primi ad interessarsi di burnout, interpretando questo fenomeno come una miscela di difese psicodinamiche e caratteristiche socio-organizzative: usando un questionario molto esteso e indagando vari aspetti del lavoro dell’operatore socio-sanitario, come variabili organizzative, ruoli, motivazioni, disturbi psicosomatici, è stata condotta una ricerca su 110 operatori socio-sanitari ed è stato elaborato quello che poi venne definito il “termometro per il burnout” (Sardella& Drudi, 1987). Si tratta di una serie di affermazioni dalle quali i dati vengono trasformati in gradi di disagio, con un significato analogo a quello della misura della temperatura corporea. Il soggetto deve segnare quale tra le situazioni indicate dal test prova (sintomi, atteggiamenti etc..) e per ottenere la versione finale della scala i dati sono elaborati mediante tecniche multivariate ottenendo in tal modo tre fasce di punteggi:

– fino a 37°: in questa gamma rientra la popolazione sana;

– da 37,1 a 38°: rientrano i soggetti a rischio di burnout;

– oltre i 38°: da questo valore sono previste tre fasi progressive di disagio (1° stadio, fase acuta e fase terminale) e per ogni fase vengono individuati dei profili tipici degli stati motivazionali vissuti dagli operatori.

 

Questo strumento si può prestare ottimamente come supporto didattico in training e meeting centrati sullo stress lavorativo.

Sigaretti e coll., dell’Università di Siena, partendo dal M.B.I. hanno costruito una scala di 29 item che all’analisi fattoriale dà luogo alle tre dimensioni suggerite dalla Maslach. Tale scala è standardizzata su un campione di 235 operatori di asili nido e la formulazione degli item è stata mirata in funzione del tipo di soggetti intervistati e soprattutto con l’obiettivo di migliorare la dimensione della depersonalizzazione. Lo strumento sembra essere ideale sia per agilità di applicazione che per validità di costrutto, ed anche i coefficienti di attendibilità risultano buoni.

Nel 1983 Ford, Murphy & Edwards presentarono su “Psychological Reports” la scala Job Burnout con lo scopo di fornire uno strumento applicabile anche in professioni diverse dai servizi sanitari e sociali. Nel loro lavoro confrontano diverse realtà lavorative alla luce di un unico questionario. Questa operazione, e l’elaborazione dei dati che ne è conseguita, ha dato luogo a due diverse configurazioni strutturali dello strumento. Pur essendo composto di 15 item, le analisi fattoriali eseguite sui risultati ottenuti da due diversi campioni (237 operatori socio-sanitari e 150 tecnici, manager, venditori) hanno dato luogo alla seguente configurazione:

  1. Campione A: 230 soggetti e 5 dimensioni: sentimenti di sconfitta e frustrazione verso il lavoro, sentimenti verso/ da i colleghi, controllo sui risultati del lavoro, affaticamento, inadeguatezza dell’organizzazione lavorativa;
  2. Campione B: 150 soggetti e 2 dimensioni: esaurimento emozionale e inadeguatezza delle condizioni lavorative.

Si tratta di una sindrome molto particolare e difficile da trattare, per questo bisogna puntare sulla prevenzione, sulla messa a punto di tecniche o corsi specifici in grado di preparare l’operatore al contatto con la sofferenza e con il dolore e soprattutto incoraggiare il dialogo con l’intera equipe di lavoro. Solo così l’operatore potrà “proteggersi” dal burnout, solo esprimendo ed elaborando le proprie sensazioni quotidianamente sarà in grado di affrontare tutti i giorni al meglio un lavoro così emotivamente pregnante ma che se ben gestito può anche portare ad una grande soddisfazione personale.

Il burnout

Il burnout è una sindrome che colpisce con frequenza sempre maggiore coloro che operano nel sociale e più in generale le cosiddette helping professions (medici, infermieri, insegnanti, educatori), professioni in cui il rapporto con l’altro è di estrema centralità.

Il termine fu introdotto nel 1974 da Freudenberger per indicare una sindrome caratterizzata da una serie di sintomi psico-fisici e di atteggiamenti verso il lavoro, e le sue componenti costituirebbero la fase finale di un processo difensivo-reattivo verso condizioni di lavoro vissute come insoddisfacenti.

Dopo aver esaminato la letteratura sull’argomento , Pearl e Hartman concludono che il burnout è “la risposta ad uno stress emotivo cronico con tre componenti:

a) esaurimento emotivo o fisico

b) diminuita produttività sul lavoro

c) deterioramento della relazione con l’utente”.

Farber(1983) fa una rassegna di quanto affermato da vari autori sull’argomento: “Pines, Aarson e Kafry (1981) notano che il burnout è caratterizzato da esaurimento fisico, sentimenti di impotenza e disperazione, svuotamento emotivo, e dallo svilupparsi di un concetto di sé negativo e di negativi atteggiamenti  verso il lavoro, la vita e gli altri…e un senso di afflizione, scontentezza e fallimento nella ricerca di un ideale. Freudenberg e Richelson (1980) descrivono il burnout come uno stato di fatica o frustrazione nato dalla devozione a una causa, da uno stile di vita o da una relazione che ha mancato di produrre la ricompensa attesa. Edelwich e Brodsky (1980) definiscono il burnout come una progressiva perdita di idealismo, energia, motivazione, interesse come risultato delle condizioni di lavoro. Essi notano che il seme del burnout è contenuto nel presupposto che il mondo reale si armonizzerà con i propri idealistici sogni.”

 

E’ chiaro che il lavoro nei servizi socio-sanitari pone delle richieste differenti e  gli utenti/clienti sono portatori di bisogni ed esigenze particolari che implicano dinamiche diverse rispetto all’interazione con un computer o con gli impianti produttivi di un’azienda. Inoltre, spesso, questo tipo di lavoro non è gratificante in quanto gli utenti/clienti non esprimono gratitudine o apprezzamento gli  sforzi che gli operatori fanno per portarlo avanti.

 

Cherniss (1980)afferma che il “burnout rappresenta, da un punto di vista psicologico, un particolare tipo di risposta ad una situazione di lavoro sentito come intollerabile”; è una strategia di adattamento che ha conseguenze negative per la persona e l’organizzazione, è una sorta di “ritirata psicologica” dal lavoro in risposta a stress eccessivo o insoddisfazione: ciò che prima era sentito come “vocazione” ora è solo un lavoro, perdita di interesse e di senso di responsabilità per la propria professione. Questa incapacità a fronteggiare lo stress è determinata sia da elementi personali sia da variabili riguardanti il lavoro in sé e la sua organizzazione.

Le possibili manifestazioni del burnout secondo Cherniss (1980) possono essere suddivise in quattro gruppi:

–  sintomi fisici: fatica e senso di stanchezza, frequenti mal di testa e disturbi gastrointestinali, raffreddore e influenza, cambiamenti delle abitudini alimentari, insonnia;

– sintomi psicologici: senso di colpa, negativismo, sensazione di fallimento, irritabilità, scarsa fiducia in sé;

–  reazioni comportamentali: alta resistenza ad andare a lavoro, assenteismo e ritardi, tendenza a evitare o rimandare i contatti con gli utenti;

–  cambiamenti di atteggiamento verso gli utenti: cinismo, perdita di disponibilità all’ascolto, evitamento dei contatti con i colleghi.

Maslach definisce il burnout “una forma di stress interpersonale che comporta il distacco dall’utente causato dalla continua tensione emotiva del contatto con persone che portano una richiesta di aiuto”. Pur precisando che il burnout non colpisce solo i soggetti impegnati in specifiche professioni socio-sanitarie  ma tutti coloro che lavorano a stretto contatto con persone per lunghi periodi di tempo, ne sottolinea, tuttavia, la specificità per tutte le professioni di aiuto (Maslach, 1982).

La sua definizione costituisce l’approccio che oggi sembra influenzare maggiormente i ricercatori. Successivamente tale definizione viene trasformata operazionalmente e ricondotta ad un costrutto multifattoriale costituito da tre dimensioni che sono tra loro relativamente indipendenti:

–  l’esaurimento emotivo: la principale caratteristica della sindrome di burnout. A causa della forte tensione che questo lavoro comporta e delle richieste eccessive rispetto alle risorse disponibili, l’operatore sente di aver oltrepassato i propri limiti e di non poter offrire più nulla dal punto di vista psicologico, è incapace di rilassarsi e non ha più  l’energia per affrontare con entusiasmo nuove sfide e nuovi progetti e ciò porta ad un distacco emotivo e cognitivo dal lavoro e dagli utenti;

–  la depersonalizzazione: per far fronte a questa situazione di tensione emotiva l’operatore assume un atteggiamento distaccato, pone una distanza tra sé e gli utenti, cerca di evitare il coinvolgimento mettendo in atto atteggiamenti di rifiuto e di indifferenza per proteggersi dall’esaurimento e dalla delusione, riducendo al minimo il proprio coinvolgimento verso il lavoro;

–  la ridotta realizzazione personale: cioè la sensazione che nel lavoro a contatto con gli altri la propria competenza e il proprio desiderio di successo stiano venendo meno. L’operatore si sente inadeguato, motivazione ed autostima diminuiscono  ed emergono sintomi di depressione ed in questa situazione spesso il soggetto pensa di cambiare lavoro o effettuare una psicoterapia. “Questo costrutto ha una relazione complessa con gli altri due:  sembra che sia una funzione di entrambi oppure una combinazione dei due. Una situazione lavorativa caratterizzata da richieste croniche o opprimenti che contribuiscono all’esaurimento e al “cinismo” è probabile possa erodere il senso di efficacia dell’individuo. Esaurimento e depersonalizzazione interferiscono con l’efficacia: è difficile raggiungere un senso di realizzazione quando ci si sente esauriti o si aiutano persona verso le quali si prova indifferenza. Comunque in altri contesti lavorativi, l’inefficacia sembra svilupparsi parallelamente agli altri due aspetti del burnout, piuttosto che in maniera sequenziale” (Leiter,1993).

Burnout e professioni

Una categoria lavorativa molto esposta a rischio di burnout è quella degli insegnanti.

Innanzitutto occorre ribadire che l’immagine sociale dell’insegnante è cambiata rispetto al passato: un tempo la scuola veniva tenuta in grande considerazione e, di conseguenza, l’insegnante era visto come una persona di prestigio mentre adesso sembra prevalere un atteggiamento meno idealistico e l’istituzione scolastica tende ad assumere una funzione quasi esclusivamente di custodia, di addestramento e di istruzione con una conseguente svalutazione del ruolo e della figura dell’insegnante stesso (Favaretto, Rappagliosi,1990).

A tale cambiamento non è stato corrisposto un mutamento nella loro formazione e ciò ha fatto si che si trovassero impreparati ad affrontarli e questo potrebbe essere un importante fattore di burnout.

La professione di insegnante può essere scelta per “vocazione” o per ragioni strumentali: c’è chi fa dell’insegnamento una ragione di vita e un modo per realizzarsi personalmente e chi lo fa per il prestigio o i vantaggi materiali che tale mestiere comporta. Ne derivano due modi completamente diversi di approcciarsi all’utenza e alla professione e di far fronte allo stress e alle difficoltà insite nel ruolo: chi ha fatto una scelta vocazionale ha una motivazione al successo ed una resistenza allo stress più alta di chi ha scelto l’insegnamento per ragioni strumentali, se consideriamo due insegnanti che lavorano a parità di condizioni, ci accorgiamo che chi è sorretto da una scelta vocazionale affronterà le difficoltà e le sfide con entusiasmo per sentirsi pienamente realizzato, mentre chi ha fatto una scelta strumentale si sentirà come schiacciato da un gran peso e riceverà in cambio solo uno scarso guadagno e qualche piccolo vantaggio personale.

Si è dibattuto sulla questione se la sindrome di burnout colpisce maggiormente gli insegnanti giovani o quelli meno giovani: con ogni probabilità, gli insegnanti più giovani sperimentano un livello di stress più alto perché si trovano ad affrontare situazioni e relazioni che ancora non conoscono bene e non sono ancora in grado di padroneggiare ma dispongono di più entusiasmo e, se validamente motivati, di risorse emotive; al contrario, chi lavora da molti anni padroneggia maggiormente la situazione lavorativa e i trabocchetti che vi sono nascosti, per cui non corre più i rischi di un eccessivo coinvolgimento; corre però il rischio di un distacco motivazionale legato alla routine e alla noia.

Altri autori hanno messo in relazione il burnout con determinati tratti di personalità. Ad esempio, alcune ricerche (McIntyre,1984; Brookings, Bolton, Brown,1985;Kyriacou,1987) hanno rilevato la correlazione tra individui con locus of control “esterno” e burnout. Tale connessione ha ricevuto conferma anche dalle ricerche di Pedrabissi e Santinello su un campione di 300 insegnanti di scuola elementare e media inferiore e da altri ricercatori (Pedrabissi, Santinello,1992, Halpin, Harris, Halpin,1985). Pedrabissi e Santinello, inoltre, hanno evidenziato come le dimensioni tipiche del burnout, influenzate dal locus of control, siano quelle dell’esaurimento emotivo e della depersonalizzazione e in tal modo hanno confermato l’ipotesi secondo la quale i docenti maggiormente esposti a rischio di burnout sarebbero quelli piuttosto rassegnati e remissivi nel momento in cui è necessario agire sulla situazione stressante (reazione tipica degli individuo con locus of control esterno) e che, di conseguenza, preferiscono (in maniera inconsapevole) distaccarsi dagli eventi “stressanti” (depersonalizzazione) esaurendo progressivamente le energie residue (esaurimento emotivo).

Le persone che scelgono l’insegnamento sulla base di un modello idealizzato e poco realistico di questa professione molto spesso vanno incontro a fenomeni di esaurimento emotivo: Ada Abraham ha sottolineato l’importanza del rapporto tra Sé ideale e Sé professionale realmente percepito, se queste due immagini corrispondono o almeno non sono troppo disarmoniche, la scelta della professione sarà fonte di benessere e soddisfazione; se il docente riscontra una forte discrepanza tra l’immagine idealizzata della professione e l’immagine reale di sé si verificherà una “crisi di identità” con quattro possibili sbocchi:

– predominanza di sentimenti contraddittori senza che si arrivi ad affrontare efficacemente il conflitto;

–  rifiuto di accettare il Sé reale: in questo caso gli insegnanti cercheranno una compensazione al di fuori della scuola o, in casi più gravi, possono manifestare comportamenti patologici come, ad esempio, l’alcolismo;

–  lasciarsi sommergere dall’angoscia quando ci si rende conto della mancanza dei mezzi necessari per rendere concreti gli ideali professionali. Emerge un iperattivismo ansioso che si manifesta nella ricerca affannosa di nuovi mezzi e strumenti (corsi di aggiornamento, congressi ecc..);

–  affrontare il conflitto in maniera serena e realistica e cercare una risposta nell’ambito delle possibilità concretamente disponibili, eventualmente decidendo anche di intraprendere una psicoterapia.

 

Questa analisi sulle conseguenze di una discrepanza tra Sé professionale e ideale richiama un altro fattore centrale del burnout: la motivazione alla scelta della professione.

Paradossalmente alcune ricerche (Pistoi,1985) dimostrano che sono più vulnerabili al burnout coloro che hanno scelto questa professione come ripiego: Pedrabissi e Santinello distinguendo i docenti tra motivati e non motivati hanno constatato che i primi vivevano con minore conflittualità il divario tra ciò che desideravano essere come insegnanti (immagine ideale) e ciò che realmente erano (immagine reale), mentre nei secondi tale frattura era molto più marcata (Pedrabissi, Santinello,1990). Gli insegnanti motivati, quindi, avendo scelto la professione con maggiore entusiasmo e desiderio sembravano manifestare minori sintomi di esaurimento emotivo e maggiore soddisfazione e realizzazione professionale.

La categoria degli infermieri è una delle più esposte al rischio di burnout. Già nel 1960, Menzies evidenziava i problemi e i legami esistenti tra stress e professione infermieristica, nel 1962 Jones evidenziava come gli infermieri sviluppassero un atteggiamento di distacco emotivo verso l’utente e come spesso il loro lavoro di supporto psicologico al paziente venisse meno. Da allora molte ricerche hanno tentato di identificare le dimensioni del lavoro esperite come stressanti (Ivancevich & Smith, 1981) e le relazioni tra le domande dell’ambiente di lavoro e la soddisfazione lavorativa, la performance e la tensione psicofisica (Vredenburg & Trinkaus,1983).

E’ accertato che questa attività sia particolarmente stressante ma va sottolineato che la categoria professionale non è omogenea, nel senso che il tipo di paziente curato, il tipo di ospedale e di reparto o struttura sanitaria posso influenzare i livelli di stress esperito.

Tradizionalmente gli studi sugli infermieri psichiatrici erano molto attenti ai problemi legati al ruolo esercitato ed al tipo di struttura e di ambiente fisico che accoglieva gli utenti, visto che le istituzioni psichiatriche non sono mai state dei modelli di modernità e comfort fisico, oltre che esercitare talvolta dei ruoli non esclusivamente terapeutici (Goffman, 1961). Ma il contatto con l’utente è difficile e si è rivelato una delle fonti di maggiore frustrazione per gli infermieri (Wallis cit. in Jones,1987) soprattutto quando si ha a che fare con pazienti cronici o “violenti”.

Gli studiosi di questa sindrome di sono occupati dall’inizio di questi operatori (Pines & Maslach, 1978) individuando delle specifiche strategie di risposta allo stress:

–  razionalizzazione: l’esperienza viene trasformata in termini intellettuali meno coinvolgenti;

– compartimentalizzazione: si tengono rigidamente separate la vita personale e quella lavorativa;

–  ritirata: il coinvolgimento lavorativo si riduce progressivamente dedicando meno tempo agli utenti, comunicando in modo stereotipato e impersonale e interagendo poco con lo staff.

 

Successive ricerche degli stessi autori hanno identificato come risultino maggiormente a rischio di burnout coloro che lavorano con alte percentuali di schizofrenici e che hanno una bassa qualità di rapporti con lo staff terapeutico. Inoltre incideva negativamente l’elevata frequenza di riunioni lavorative e veniva ribadita l’importanza per i membri dello staff di avere la sensazione di efficacia e successo.

Un’altra categoria fortemente esposto a rischio di burnout è quella degli educatori. Molto spesso il lavoro di educatore non è considerato una professione, ma piuttosto una vocazione, una missione, un dovere, un atto di solidarietà.

La scelta di un lavoro risponde sempre ad una motivazione psicologica e si fonda su aspettative che sono legate all’immagine sociale di una professione, alle possibilità lavorative presenti sul mercato, ai livelli di remunerazione, alle possibilità di carriera. Le professioni d’aiuto, almeno negli ultimi trenta anni, non sembrano corrispondere a tali requisiti: immagine sociale dequalificata se non negativa, progressivo rifiuto del mercato del lavoro, basse remunerazioni ma nonostante ciò le professioni di aiuto vedono un costante aumento degli aspiranti e spesso le cause sono da ricercare non nelle aspettative ma nelle motivazioni psicologiche cioè nei bisogni profondi di chi desidera diventare educatore.

La prima motivazione riguarda il fatto che chi sceglie questa professione ha un forte bisogno di aiutare. Aver bisogno di aiutare significa anzitutto mettersi al di qua della soglia del bisogno di essere aiutati: assistere un soggetto in stato di bisogno offusca la consapevolezza del proprio bisogno. La seconda motivazione è legata alla prima: porsi in un ruolo di bonificatore, benefattore, salvatore, non solo esorcizza la paura del male esterno, ma garantisce una buona immagine di sé; chi dedica la vita agli altri, non può che essere buono, chi lavora per l’aiuto, chi lotta contro il male in teoria non potrebbe mai commetterne. La terza motivazione riguarda il potere: chi ha bisogno di aiuto è sempre in stato di inferiorità e il professionista dell’aiuto si pone come grande madre accogliente e grande padre onnipotente, che può fare da contenitore di ogni male del paziente.

L’incontro con il bisogno, il disagio, il dolore e la morte attacca l’immagine del potente salvatore e produce depressione e sentimenti di impotenza, l’impossibilità ad aiutare facilita l’insorgenza del dubbio, l’idealizzazione della propria immagine si affievolisce e arriva la frustrazione prima e il burnout poi.

Un altro problema relativo al lavoro di educatore è quello che riguarda retribuzioni e carriera.

Il lavoro sociale non è gratificante per il primo aspetto, né per il secondo. Può sembrare paradossale, ma retribuzione e carriera, prestigio e potere sono inversamente proporzionali alla vicinanza coi soggetti bisognosi d’aiuto: l’educatore di un servizio territoriale che vede ogni giorno l’utente, guadagna meno dell’assistente sociale che lo vede una volta al mese, la quale guadagna meno del capo-servizio che lo vede una volta l’anno, l’unica possibilità di carriera, nel settore dell’aiuto, consiste nell’allontanarsi dall’aiuto stesso. La continuativa vicinanza all’utente va inoltre di pari passo con la diminuzione delle opportunità di ricerca e formazione permanente. Una seria prevenzione del burnout dovrebbe compensare con maggiori retribuzioni gli operatori front-line, offrendo loro maggiore potere e maggiore libertà.

Non essendo questo possibile per motivi economici, occorre allora trovare sistemi compensatori come la formazione e la supervisione permanenti, l’istituzione dell’anno sabbatico, il coinvolgimento attivo in attività di ricerca e di confronto professionale e scientifico, la possibilità di carriere orizzontali (spostamenti premio, sia pure temporanei, in servizi più gratificanti), l’uso di strumenti di incentivazione legati alla qualità delle prestazioni.

Un altro elemento specifico che facilita ulteriormente il burnout è la difficoltà di verificare e valutare i risultati: in una impresa profit, sia materiale che immateriale, il risultato è il profitto, in un sistema d’aiuto il risultato è il benessere; mentre il primo è facilmente quantificabile, il secondo non lo è affatto. Chi lavora in una impresa profit dispone di parametri di conferma o disconferma della propria prestazione, abbastanza chiari e di facile applicazione mentre chi lavora in un sistema d’aiuto, lavora al buio, in un regime di risultati invisibili e di responsabilità distribuite. La carenza di confronto individuale con i risultati delle proprie azioni produce da una parte uno stato d’incertezza continua.

L’équipe fornisce all’operatore uno spazio di appartenenza e confronto, di supporto emotivo e di controllo: è un contenitore delle dimensioni affettivo-relazionali che sono implicate nel lavoro dell’aiuto.

Naturalmente le funzioni indicate per l’équipe dell’aiuto, sostegno, confronto, funzione di contenitore, supervisione, hanno una valenza positiva per l’efficienza e possono prevenire il burnout, a condizione che l’équipe funzioni.

Quando il gruppo di lavoro è attraversato da processi disfunzionali o da dinamiche patologiche, invece della prevenzione, esso offre una accelerazione della emergenza del burnout. Rovesciando il concetto, possiamo dire che l’équipe svolge un forte ruolo preventivo del burnout a patto che riesca a costruire un consenso, funzionare come operatore plurale e agire come contenitore emotivo-razionale.

I sistemi di aiuto producono benessere solo se sanno prevenire il malessere o il burnout degli operatori. Uno dei problemi del burnout è che spesso gli operatori stessi non riconoscono di essere in una situazione di svuotamento e bruciatura e in questi casi è fondamentale il sostegno dell’equipe e il confronto e feedback con la stessa; inoltre è di fondamentale importanza l’intervento e la vicinanza, tramite la comunicazione, della famiglia. È importante, anche se il lavoro della professione d’aiuto assorbe notevolmente e fa sentire “buoni”, riuscire a ritagliarsi dei momenti privati, dove il lavoro non possa entrare. Di fondamentale importanza è dare spazio a svago e rilassamento anche se la tendenza sarebbe di occuparsi sempre degli altri e dei loro problemi, è davvero importante prendersi cura di sé anche con delle pause, laddove possibile, di rigenerazione e ricarica, in attesa di stare di nuovo bene e solo cosi è si raggiunge l’obiettivo finale di occuparsi delle persone che richiedono aiuto, con qualità, compassione e amore.

Il mobbing

Il mobbing è caratterizzato da una serie di comportamenti violenti, che possono includere abusi psicologici, emarginazione ed umiliazioni messi in atto da uno o più individui nei confronti di un altro individuo e che si prolungano nel tempo. Tali comportamenti durano nel tempo e sono lesivi della dignità personale e professionale della vittima e anche della sua salute psicofisica ma non sempre raggiungono la soglia di reato né sono di per sé illegittimi ma producono una serie di danneggiamenti che hanno conseguenze sul patrimonio della vittima, sulla sua salute e su tutta la sua vita.

Il termine mobbing è stato coniato agli inizi degli anni settanta dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie con l’obiettivo di escludere un membro dello stesso gruppo.

Per potersi parlare di mobbing, il comportamento persecutorio deve portare all’espulsione della vittima dal luogo di lavoro, causandogli una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.

Uno dei principali modelli per spiegare tale fenomeno è quello di Leymann (1996) che ipotizza che il mobbing non è un comportamento stabile ma un processo che si evolve attraverso quattro stadi:

–  prima fase: il conflitto quotidiano. Vi è  un conflitto latente che influisce negativamente sulle relazioni tra i dipendenti e Leymann sostiene che la non risoluzione di tale conflitto o la sua non adeguata gestione portano all’insorgere del mobbing;

– seconda fase: la maturazione del conflitto. In questa fase il conflitto si evolve e diventa continuativo, tutti gli sforzi sono tesi al danneggiamento della vittima attraverso  attacchi costanti e ripetuti nel tempo;

–  terza fase: errori o abusi anche non legali dell’amministrazione del personale. In questa fase ormai la situazione di mobbing è diventata di pubblico dominio e la vittima inizia ad accusare sintomi di malessere fisico ed i vertici aziendali vengono a conoscenza del problema;

– quarta fase: esclusione dal mondo del lavoro. Il mobbing raggiunge il suo scopo, la vittima viene esclusa dall’ambiente lavorativo attraverso il licenziamento, le dimissioni, la liquidazione, il prepensionamento, spesso la vittima si licenzia di sua volontà perché non sopporta più di essere maltrattata. I casi più gravi di mobbing si concludono con il suicidio della vittima.

Il rapporto tra mobber e mobbizzato da luogo a tre diverse tipologie, o direzioni, del fenomeno.

Si parla di mobbing dall’alto, o verticale discendente, nella situazione in cui il mobber si trova in una posizione gerarchica superiore rispetto alla vittima. Spesso l’attività di mobbing è condotta da un superiore al fine di costringere alle dimissioni un dipendente  perché antipatico, poco competente o poco produttivo. In tal caso, le attività di mobbing possono estendersi anche ai colleghi (i side mobber), che preferiscono assecondare il superiore, o quantomeno non prendere le difese della vittima, per non entrare in conflitto con il capo, nella speranza di fare carriera, o semplicemente per “quieto vivere”.

Nel mobbing tra pari, mobber e vittima sono allo stesso livello gerarchico, spesso è messo in atto da parte dei colleghi verso un lavoratore non integrato nell’organizzazione lavorativa per motivi d’incompatibilità ambientale o caratteriale (ad esempio per i diversi interessi sportivi, per motivi etnici o religiosi oppure perché diversamente abile). Spesso i motivi che lo scatenano sono la forte competizione o concorrenza tra il personale dello stesso reparto o semplicemente invidia o desiderio di apparire migliori agli occhi dei superiori (Ege,1996).

Nel mobbing dal basso, o verticale ascendente, il mobber si trova in una posizione gerarchica inferiore rispetto alla vittima e  generalmente le cause che lo scatenano non sono tanto le incompatibilità all’interno dell’ambiente di lavoro quanto una reazione da parte di una maggioranza del gruppo allo stress dell’ambiente e delle attività lavorative: la vittima viene dunque utilizzata come “capro espiatorio” su cui far ricadere la colpa della disorganizzazione, delle inefficienze e dei fallimenti.

Il mobbing strategico si ha quando si mettono in atto condotte mobbizzanti verso un lavoratore con lo scopo di espellerlo dall’attività lavorativa e far subentrare un’altra persona.

Il bossing è un termine che indica azioni compiute dalla direzione o dall’amministrazione del personale e che assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale, volta alla riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure alla semplice eliminazione di una persona indesiderata e viene attuato con il preciso scopo di indurre il dipendente alle dimissioni. Può attuarsi in modalità differenti ma con lo scopo comune di creare un clima di tensione intollerabile (Ege,2000).

Il mobbing non è una malattia ma di certo può essere la causa scatenante di varie malattie: la patologia psichiatrica più frequentemente associata è il disturbo dell’adattamento, caratterizzata da una sintomatologia ansioso-depressiva reattiva all’evento stressogeno. Fra le conseguenze rientrano la perdita d’autostima, depressione, insonnia, isolamento. I sintomi fisici includono cefalea, annebbiamenti della vista, tremore, tachicardia, sudorazione fredda, gastrite, dermatosi. Le conseguenze maggiori sono disturbi della socialità, quindi, nevrosi, depressione, isolamento sociale e suicidio, in un numero non trascurabile di casi.

Uno degli strumenti più diffusi per la misurazione del mobbing è stato ideato da Leymann alla fine degli anni ’80, il Leymann Inventory of Psychological Terrorization(LIPT), che comprende la catalogazione di 45 azioni mobbizzanti suddivise in cinque categorie:

–  attacchi alla possibilità di comunicare con colleghi e con il management costringendo il dipendente a prendere le informazioni dalle voci di corridoio che spesso sono erronee;

–  attacchi alle relazioni sociali, in cui l’esclusione è anche fisica, la vittima viene trasferita in luoghi isolati, negandole contatti e rapporti sociali;

– attacchi all’immagine sociale, alla vittima vengono impartiti ordini poco chiari allo scopo di fargli commettere errori;

– attacchi alla qualità della situazione professionale, attraverso sottomansionamento o demansionamento;

ü  attacchi alla salute, affidando alla vittima compiti pericolosi per il benessere psico-fisico.

Ad oggi non esiste ancora una legge specifica sul mobbing ma vi sono delle norme civilistiche che permettono di difendersi da questi comportamenti persecutori.

Occorre distinguere le ipotesi in cui l’autore del mobbing sia il datore di lavoro o un collega della vittima. Nel primo caso, l’ 2087 del Codice Civile obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore e per essere risarcito il lavoratore dovrà provare la condotta illegittima messa in atto dal superiore mentre quest’ultimo potrà dimostrare di aver operato secondo le disposizioni di legge. Nel secondo caso, invece, l’articolo 2043 del Codice Civile obbliga il mobber a rispondere per responsabilità extracontrattuale che ricorre nel caso in cui una persona provoca un danno ingiusto ad un’altra.

Quando invece gli vengono assegnate mansioni diverse rispetto all’incarico per il quale è stato assunto o mansioni inferiori o che lo lasciano inattivo, il lavoratore, ai sensi dell’art.2013 del Codice Civile, può chiedere al giudice del lavoro di accertare il fatto illecito e chiedere di essere reintegrato nelle mansioni precedentemente svolte o comunque equivalenti.

L’INAL considera il mobbing una malattia professionale quindi il lavoratore può chiedere il risarcimento del danno anche a questo Ente.

 

Burnout: introduzione storica e principali modelli teorici

Il burnout è una sindrome che colpisce con frequenza sempre maggiore coloro che operano nel sociale e più in generale le cosiddette helping professions (medici, infermieri, insegnanti, educatori), professioni in cui il rapporto con l’altro è di estrema centralità.

Il termine fu introdotto nel 1974 da Freudenberger per indicare una sindrome caratterizzata da una serie di sintomi psico-fisici e di atteggiamenti verso il lavoro, e le sue componenti costituirebbero la fase finale di un processo difensivo-reattivo verso condizioni di lavoro vissute come insoddisfacenti.

Dopo aver esaminato la letteratura sull’argomento , Pearl e Hartman concludono che il burnout è “la risposta ad uno stress emotivo cronico con tre componenti:

  •  esaurimento emotivo o fisico
  •  diminuita produttività sul lavoro
  •  deterioramento della relazione con l’utente”.

Farber(1983) fa una rassegna di quanto affermato da vari autori sull’argomento: “Pines, Aarson e Kafry (1981) notano che il burnout è caratterizzato da esaurimento fisico, sentimenti di impotenza e disperazione, svuotamento emotivo, e dallo svilupparsi di un concetto di sé negativo e di negativi atteggiamenti  verso il lavoro, la vita e gli altri…e un senso di afflizione, scontentezza e fallimento nella ricerca di un ideale. Freudenberg e Richelson (1980) descrivono il burnout come uno stato di fatica o frustrazione nato dalla devozione a una causa, da uno stile di vita o da una relazione che ha mancato di produrre la ricompensa attesa. Edelwich e Brodsky (1980) definiscono il burnout come una progressiva perdita di idealismo, energia, motivazione, interesse come risultato delle condizioni di lavoro. Essi notano che il seme del burnout è contenuto nel presupposto che il mondo reale si armonizzerà con i propri idealistici sogni.”

 

E’ chiaro che il lavoro nei servizi socio-sanitari pone delle richieste differenti e  gli utenti/clienti sono portatori di bisogni ed esigenze particolari che implicano dinamiche diverse rispetto all’interazione con un computer o con gli impianti produttivi di un’azienda. Inoltre, spesso, questo tipo di lavoro non è gratificante in quanto gli utenti/clienti non esprimono gratitudine o apprezzamento gli  sforzi che gli operatori fanno per portarlo avanti.

 

Cherniss (1980)afferma che il “burnout rappresenta, da un punto di vista psicologico, un particolare tipo di risposta ad una situazione di lavoro sentito come intollerabile”; è una strategia di adattamento che ha conseguenze negative per la persona e l’organizzazione, è una sorta di “ritirata psicologica” dal lavoro in risposta a stress eccessivo o insoddisfazione: ciò che prima era sentito come “vocazione” ora è solo un lavoro, perdita di interesse e di senso di responsabilità per la propria professione. Questa incapacità a fronteggiare lo stress è determinata sia da elementi personali sia da variabili riguardanti il lavoro in sé e la sua organizzazione.

Le possibili manifestazioni del burnout secondo Cherniss (1980) possono essere suddivise in quattro gruppi:

  •  sintomi fisici: fatica e senso di stanchezza, frequenti mal di testa e disturbi gastrointestinali, raffreddore e influenza, cambiamenti delle abitudini alimentari, insonnia;
  •   sintomi psicologici: senso di colpa, negativismo, sensazione di fallimento, irritabilità, scarsa fiducia in sé;
  •   reazioni comportamentali: alta resistenza ad andare a lavoro, assenteismo e ritardi, tendenza a evitare o rimandare i contatti con gli utenti;
  •   cambiamenti di atteggiamento verso gli utenti: cinismo, perdita di disponibilità all’ascolto, evitamento dei contatti con i colleghi.

Maslach definisce il burnout “una forma di stress interpersonale che comporta il distacco dall’utente causato dalla continua tensione emotiva del contatto con persone che portano una richiesta di aiuto”. Pur precisando che il burnout non colpisce solo i soggetti impegnati in specifiche professioni socio-sanitarie  ma tutti coloro che lavorano a stretto contatto con persone per lunghi periodi di tempo, ne sottolinea, tuttavia, la specificità per tutte le professioni di aiuto (Maslach, 1982).

La sua definizione costituisce l’approccio che oggi sembra influenzare maggiormente i ricercatori. Successivamente tale definizione viene trasformata operazionalmente e ricondotta ad un costrutto multifattoriale costituito da tre dimensioni che sono tra loro relativamente indipendenti:

  •  l’esaurimento emotivo: la principale caratteristica della sindrome di burnout. A causa della forte tensione che questo lavoro comporta e delle richieste eccessive rispetto alle risorse disponibili, l’operatore sente di aver oltrepassato i propri limiti e di non poter offrire più nulla dal punto di vista psicologico, è incapace di rilassarsi e non ha più  l’energia per affrontare con entusiasmo nuove sfide e nuovi progetti e ciò porta ad un distacco emotivo e cognitivo dal lavoro e dagli utenti;
  •  la depersonalizzazione: per far fronte a questa situazione di tensione emotiva l’operatore assume un atteggiamento distaccato, pone una distanza tra sé e gli utenti, cerca di evitare il coinvolgimento mettendo in atto atteggiamenti di rifiuto e di indifferenza per proteggersi dall’esaurimento e dalla delusione, riducendo al minimo il proprio coinvolgimento verso il lavoro;
  •  la ridotta realizzazione personale: cioè la sensazione che nel lavoro a contatto con gli altri la propria competenza e il proprio desiderio di successo stiano venendo meno. L’operatore si sente inadeguato, motivazione ed autostima diminuiscono  ed emergono sintomi di depressione ed in questa situazione spesso il soggetto pensa di cambiare lavoro o effettuare una psicoterapia. “Questo costrutto ha una relazione complessa con gli altri due:  sembra che sia una funzione di entrambi oppure una combinazione dei due. Una situazione lavorativa caratterizzata da richieste croniche o opprimenti che contribuiscono all’esaurimento e al “cinismo” è probabile possa erodere il senso di efficacia dell’individuo. Esaurimento e depersonalizzazione interferiscono con l’efficacia: è difficile raggiungere un senso di realizzazione quando ci si sente esauriti o si aiutano persona verso le quali si prova indifferenza. Comunque in altri contesti lavorativi, l’inefficacia sembra svilupparsi parallelamente agli altri due aspetti del burnout, piuttosto che in maniera sequenziale” (Leiter,1993).